#361 - 1 marzo 2025
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Cinema

I dimenticati - Una iniziativa di "Diari di Cineclub"

Maciste

Diari di Cineclub - I dimenticati - 116 - Bartolomeo Pagano.


Di

Virgilio Zanolla.

Durante il Ventennio, il culto della romanità attinse al suo apice: la mitografia fascista aveva bisogno di essere esaltata con un simbolo di forza naturale e irresistibile, perciò guardò subito alla settima arte; serviva una figura d’attore che potesse efficacemente rappresentarla, nella quale il pubblico potesse trasferire i suoi desideri di riscatto. Questa figura esisteva già: era un eroe sortito dalla fantasia di Gabriele D’Annunzio, si chiamava Maciste (un antico soprannome di Ercole, che in dialetto dorico significa «grandissimo»), reso internazionalmente noto grazie a un fortunatissimo film, Cabiria; circa l’attore che lo impersonava, - il primo dei dodici Macisti finora apparsi sullo schermo - si dice che lo stesso Mussolini ne studiasse la plastica gestualità nel tentativo di rassomigliargli.

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Bartolomeo Pagano, è di lui che si tratta, era nato a Sant’Ilario Alto (allora e fino al 1926 frazione del comune autonomo di Nervi) il 27 settembre 1878. In grazia della sua stazza, - era alto 1,89 cm, pesava poco meno di centoventi chili e aveva un torace ampio 120 cm. - giovanissimo trovò subito lavoro nella compagnia di camalli (facchini o scaricatori di porto) della Caravana, un’antica corporazione che nel 1946 dette vita alla Compagnia Unica del porto di Genova. I camalli della Caravana indossavano per tradizione una casacca turchina e osservavano un comportamento esemplare; dovevano mostrarsi moderati nell’agire e parchi nel parlare: le bestemmie venivano punite con multe salatissime e così le mancate partecipazioni alle messe sociali, che si tenevano presso la cappella votiva della corporazione all’interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine e Sant’Agnese. Con questo, non si deve credere essi fossero dei grigi baciapile: ricordava Aronne Giardini, un compagno di lavoro di Bartolomeo - in genovese, Bertumè - come nei momenti di pausa gli scaricatori si dividessero in due squadre di tifosi, scommettendo focaccia e vino bianco su chi tra Pagano e un suo pari forza, Francesco Bellotti detto Cescu, riuscisse a muovere, anche solo di pochi centimetri, un masso di cinque quintali presente presso l’allora Silos granario: e il successo arrideva equanime ora all’uno ora all’altro erculeo competitore. A quel tempo, spettavano agli scaricatori anche certe onerose mansioni che oggi svolgono le macchine.

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Ogni mattina presto, Bertumè scendeva a piedi dalla sua casa sulle alture di Sant’Ilario a Nervi, dove un tram a cavalli lo portava fino a piazza Caricamento, all’ingresso del porto. Sul lavoro, e del resto nella vita, era un uomo generosissimo, che accettando la sua superiorità fisica come un dono di Dio si prestava volentieri a sfruttarla in aiuto degli altri. Se aveva un difetto (ammesso che questo possa passare per tale) era il formidabile appetito: a mezzogiorno, quando il fischio della sirena segnava la pausa dal lavoro, con la scusa che «la macchina vuole carbone», si recava coi compagni di fatica nella vicina osteria della Nina, dove lo attendeva immancabilmente una bella porzione di minestrone al pesto, che spazzolava col concorso di un chilo e mezzo di pane e mezzo litro di vinello.

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Egli lavorava già da dieci anni nella compagnia della Caravana, era sposato con la gentile Camilla Balduzzi e, da poco padre d’un figlio, per arrotondare la paga prestava le sue forme scultoree quale modello a vari artisti; quando, quasi da un giorno all’altro, il suo destino cambiò ponendolo al centro di un grandioso progetto cinematografico. Il regista e produttore astigiano Giovanni Pastrone, patron dell’Itala Film e noto con lo pseudonimo di Piero Fosco, visto l’interesse suscitato internazionalmente dalle recenti pellicole italiane ambientate in epoca greca e romana antica (Giulio Cesare, 1909, e La caduta di Troia, 1911, da lui dirette; Gli ultimi giorni di Pompei di Eleuterio Rodolfi e Quo Vadis? di Enrico Guazzoni, entrambe 1913) si era deciso a realizzare Cabiria, un colossale film storico ambientato durante le guerre puniche, che narrava la tormentata storia d’amore tra la schiava Cabiria (da bambina, Carolina Catena; da adulta, Lidia Quaranta) e il romano Fulvio Axilla (Umberto Mozzato). Egli non badò a spese: scrisse e sceneggiò la trama assieme a Gabriele D’Annunzio, al quale spetta l’invenzione di molti nomi, tra i quali quelli di Maciste e della protagonista («nata dal fuoco»); affidò la composizione delle musiche di scena al maestro Ildebrando Pizzetti, che scrisse la famosa Sinfonia del fuoco, e si servì per la fotografia e certe soluzioni espressive del miglior operatore di quegli anni, lo spagnolo Segundo de Chomón; la pellicola si segnalò anche per le molte innovazioni tecniche. Le riprese si effettuarono tra Torino, i laghi di Avigliana, le valli di Lanzo, la Sicilia e la Tunisia. Uscito nell’aprile 1914, Cabiria riscosse ovunque grandissimo successo, tanto che rimase sei mesi in cartellone a Parigi e quasi un anno a New York, dove colpì la fantasia di molti registi, tra cui David Wark Griffith, che sulla sua falsariga due anni dopo realizzò Intolerance.

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Torniamo però indietro di un anno. Un personaggio chiave del film era il salvatore di Cabiria, il poderoso Maciste, servo di Fulvio Axilla. Pastrone aveva un’idea precisa di chi voleva lo interpretasse: doveva trattarsi di un uomo, sì di proporzioni erculee, ma nel contempo dall’aspetto cordiale e rassicurante. Dapprima lo cercò tra gli atleti che avevano partecipato alle Olimpiadi di Stoccolma, ma nessuno soddisfece il suo criterio; quindi si affidò alle segnalazioni dei suoi collaboratori: scartò un pompiere milanese perché, essendo un filodrammatico, lo giudicò privo della genuinità che esigeva; pensò di aver trovato chi cercava in un facchino di Trieste, ma dové ricredersi quando si accorse che era troppo amico del bicchiere. Infine, per trovare il suo Maciste bandì una selezione: e spinto dal sindacalista socialista Gino Murialdi Bertumè vi partecipò, ottenendo anche una segnalazione da parte dell’attore Domenico Gambino. Si presentò a Torino all’Itala Film, dove s’impose su una quarantina di concorrenti convenuti da ogni zona della penisola. Pastrone restò enormemente colpito, non solo dalla sua prodigiosa stazza, altresì dal suo sorriso bonario e tranquillo. Lo voleva ‘primitivo’, ma non rozzo: perciò per fornirgli una preparazione elementare lo fece studiare presso una maestrina, che tuttavia ebbe il torto d’innamorarsi di lui e venne allontanata; gli insegnò a vestire, a camminare, a gestire, e lo scritturò con uno stipendio mensile di 600 lire, una cifra - inutile dirlo - ben superiore al suo stipendio di camallo.

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Il trionfo di Cabiria fu anche quello personale del nostro attore, che sebbene non protagonista s’impose in modo schiacciante su tutti gli altri interpreti, come simbolo dell’eroe forte e leale, disinteressato e generoso. Pastrone, che avvertì immediatamente le ragioni del suo successo, fu lesto a sfruttare la popolarità acquisita da Bertumè in un nuovo film per l’Itala, diretto da Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Dénizot, Maciste (1915). La trama era davvero ingegnosa: una ragazza, oppressa da uno zio malvagio che intende impossessarsi dei suoi beni, assiste in un cinema alla proiezione di Cabiria, e vedendo in azione Maciste decide di recarsi da lui per chiedergli di aiutarla. In questo modo, Maciste restava nei suoi panni, trasponendo però il suo personaggio nella contemporaneità. In breve, si trattò di un nuovo, travolgente successo, che da un lato proiettò il nostro ex camallo nell’empireo dei divi più amati, e dall’altro persuase gli autori dell’Itala Film a sfruttarlo nuovamente nella figura di Maciste.

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Così Bertumè, che in porto era appena stato promosso capospedizioniere, abbandonò definitivamente la Compagnia della Caravana per dedicarsi esclusivamente al cinema. Frattanto, l’Italia era entrata in guerra nel primo conflitto mondiale. E chi ricorda dell’appassionato discorso interventista tenuto il 5 maggio 1915 da Gabriele D’Annunzio durante l’inaugurazione del monumento ai Mille di Genova Quarto, è giusto sappia che quando allo splendido gruppo scultoreo di Eugenio Baroni venne levato il telo, qualcuno esclamò sorpreso: - Belin! Ma Garibaldi... u l’è u Bertumè! - Infatti, per rappresentare plasticamente la figura dell’eroe dei due mondi Baroni aveva fatto posare proprio Bartolomeo.

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L’Itala Film seppe sfruttare abilmente la circostanza bellica, proponendo nel ’16 Maciste alpino, regia di Borgnetto e Luigi Maggi. La trama: il 24 maggio del ’15, nostro primo giorno di guerra, trovandosi a lavorare in un film presso un paesino delle Dolomiti a pochi passi dal confine austriaco, Maciste e la sua troupe vengono catturati e imprigionati dal nemico, il quale spadroneggia; ma il gigante buono finirsce per liberare il paese prendendo a pedate gli austriaci. Manco a dirlo, anche questa nuova pellicola fu salutata da un clamoroso successo, sia in Italia che all’estero: a causa del quale la paga del nostro attore subì un vertiginoso aumento. Poco dopo, Bertumè concesse a Maciste una breve licenza, per apparire nelle vesti di poliziotto nel cortometraggio comico Cretinetti e gli stivali del brasiliano, diretto e interpretato da André Deed. Nel ’18, sempre per l’Itala, egli interpretò tre film con gli stessi personaggi, a fianco di Italia Almirante Manzini e Ruggero Capodaglio: Maciste poliziotto di Roberto Roberti, Maciste medium di Dénizot e Maciste atleta di Pastrone, cui seguì nel ’19 Maciste innamorato di Borgnetto, dove la parte della Manzini era stata presa da Linda Moglia. Nel ’20 uscì La trilogia di Maciste, un film in tre avventurosi episodi diretto da Carlo Campogalliani, con la partecipazione di Letizia Quaranta e dello stesso Campogalliani. Nel ’21 Borgnetto diresse il Nostro in tre pellicole: Maciste salvato dalle acque, Maciste in vacanza (che, girato a Grugliasco, lo vide scorrazzare a bordo di un’automobile Diatto) e il divertente La rivincita di Maciste.

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Intanto, per la distribuzione l’Itala Film si era associata all’UCI (Unione Cinematografica Italiana); in tale occasione, il contratto di Bertumè venne rinnovato e portato alla somma astronomica di 250.000 lire l’anno; egli ne approfittò subito per acquistare una villetta panoramica nella sua Sant’Ilario, che battezzò Villa Maciste: aveva intorno un po’ di terreno nel quale impiantò un orto, divertendosi a coltivarlo egli stesso. Ma non era tutto: perché nel novembre dello stesso ’21 l’Itala Film strinse un accordo di partenariato con la casa di produzione germanica Jacob Karol di Berlino, la quale per ottenere l’ingaggio dell’ex camallo portò il suo stipendio annuale a 600.000 lire, una cifra che lo pose in testa agli attori europei più pagati: tutto ciò, nel momento in cui il cinema italiano attraversava la peggiore crisi finanziaria della sua storia. Per lui i tedeschi fecero le cose in grande, tappezzando i muri di Berlino e delle altre principali città di grandi manifesti con la sua immagine, né la stampa fu da meno, definendo i suoi film «opere monumentali». Con la collaborazione germanica Bertumè interpretò Maciste e la figlia del re dell’argento di Borgnetto, accanto alla polacca Helena Makowska e ad attori tedeschi, e Maciste umanitario di Uwe Jens Krafft, entrambi del ’22, e, usciti tutti nel ’23, Maciste giustiziere di Borgnetto, Maciste e il cofano cinese di Carl Boese, Maciste contro Maciste di regista non identificato, dove ritrovò come partner la Makowska.

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Al principio del 1924 il produttore Stefano Pittaluga, anche lui ligure, che avendo appena acquisito la Fert Film e la Ridolfi Film controllava l’80% del mercato cinematografico nazionale, scritturò il nostro attore per una nuova serie di film: Maciste imperatore di Guido Brignone, Maciste e il nipote d’America di Eleuterio Rodolfi, tutt’e due di quell’anno, Maciste all’inferno di Brignone (1925), che, girato in novembre nella valle Stura di Demonte, spaventò i contadini del posto, i quali a un certo punto accorsero armati di forconi e randelli persuasi di avere a che fare con veri dannati. Questo film, il primo che da bambino vide Fellini, fu fin da subito molto apprezzato dalla critica. Nel ’26 un giovane Mario Camerini dirigeva Maciste contro lo sceicco, pellicola che strizzava furbamente l’occhio ai successi hollywoodiani di Rodolfo Valentino. Seguirono, quell’anno stesso, altri due film di Brignone, Maciste nella gabbia dei leoni e Il gigante delle Dolomiti, che furono gli ultimi della serie dedicata a Maciste, il primo come presenza nel titolo e il secondo come presenza del personaggio.

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Anche la carriera del Nostro si avviava a concludersi: ma i suoi ultimi tre film, diretti da Baldassarre Negroni e tutti drammatici, lo videro comunque protagonista. Ne Il vetturale del Moncenisio (1927) fu Gian Claudio Thibaut ed ebbe accanto la bellissima Rina De Liguoro, l’ultima diva italiana del muto; durante la lavorazione, svoltasi in esterni in una valle dell’alto Cadore, egli salvò la vita a un collega attore precipitato in una scarpata. Ne Gli ultimi zar (’28) ebbe come partner Elena Lunda, e in Giuditta e Oloferne (’29) rivestì il doppio ruolo di Oloferne e Giovanni Moreno, mentre la danzatrice russa Jia Ruskaja era Giuditta e Judith Haver.
Dopodiché Bertumé si ritirò dalla settima arte. È stato detto, per l’avvento del cinema sonoro, ma a torto, perché aveva una voce calma e gradevole; tanto che ancora nel ’35, cinquantasettenne, ricevé una proposta di lavoro da Hollywood. In realtà soffriva da tempo di una grave forma di diabete, e di una forma progressiva di artrite reumatoide, che nei suoi ultimi anni lo costrinse su una sedia a rotelle. Lo stroncò, nella sua Sant’Ilario, un arresto cardiaco il 24 giugno 1947, all’età di sessantotto anni, otto mesi e ventotto giorni.

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