#333 - 24 giugno 2023
AAAAA ATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarrà  in rete fino alla mezzanotte del giorno sabato 30 novembre quando lascerà  il posto al numero 358 - BUONA LETTURA A TUTTI - Ora ecco per voi alcune massime: "Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all'infinito" (Jacques Attali) "I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perchè" (Mark Twain) "L'istruzione è l'arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo" (Nelson Mandela) "Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare" (Socrate) «La salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale: uniamo gli sforzi perchè i servizi sanitari siano accessibili a tutti». Papa Francesco «Il grado di civiltà  di una nazione non si misura solo sulla forza militare od economica, bensì nella capacità  di assistere, accogliere, curare i più deboli, i sofferenti, i malati. Per questo il modo in cui i medici e il personale sanitario curano i bisognosi misura la grandezza della civiltà  di una nazione e di un popolo». Alberto degli Entusiasti "Ogni mattina il mondo è un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosità , vengano a impregnarlo dei loro colori" (Fabrizio Caramagna)
letteratura

L'opera nella lingua dell'Urbe

Dante

La Commedia - Canto XXXI

di Angelo Zito

Dante e Virgilio si avvicinano al pozzo che circonda il lago di Cocito (IX Cerchio). incontrano i giganti: Nembrod che ideò la torre di Babele confondendo le lingue e infatti si esprime in maniera incomprensibile, poi Fialte. Virgilio convince il gigante Anteo, a trasportarli sul fondo del pozzo dove sono rinchiusi Giuda e Lucifero.

CANTO XXXI

La stessa lingua che co’ le parole
m’aveva fatto rosso de vergogna,
poi me sollevò da lo sconforto:

come faceva Achille co’ la lancia,
che ereditò dar padre, ar primo assarto
feriva e poi cor seconno risanava.

Date le spalle a quela triste borgia,
zitti attraversammo la spianata
co’ ll’argine che gira tutt’attorno.

Più in là der naso nun riuscivi a véde,
ma in quell’aria tra er lusco e ‘r brusco
sentii sônà un corno tanto forte,

che un tôno avrebbe perso ner confronto,
drizzai lo sguardo andanno verso er punto
là dove er sôno lo sentivo nasce.

Manco Orlando riuscí a mannà un segnale,
ar pari de questo, doppo la stragge
che costò a Carlo Magno la disfatta.

Girato appena er capo poco avanti
m’apparvero a la vista tante tori
che chiesi: “Dimme Maestro mó ndo’ stamo?”

E lui: “Siccome tu guardi ner buio,
e la distanza è tanta, succede che
quello che t’immaggini è confuso.

Te ne accorgerai, si t’avvicini,
come se farza er senso da quaggiune;
perciò movete a fatte più dappresso”.

Me prese poi la mano, come un padre,
e disse: “Prima che annamo ortre,
devi sapé, a scanso de sorprese,

che quelle nun sò tori ma giganti,
ficcati da l’ombelico fin’a li piedi,
tutt’attorno a li margini der pozzo”.

Come quanno la nebbia se dirada
e un po’ pe’ vvorta se riesce a véde
quello che er vapore nisconneva,

così fissanno lo sguardo tra lo scuro,
man mano che m’avvicinavo ar bordo,
capii l’erore, ma crebbe la paura;

e come Monteriggioni è incorniciata
da le mura difese co’ le tori,
così su la ripa, attorno a quela fossa,

svettaveno st’oribbili giganti
a mezzo busto, sotto la minaccia
de li toni che Giove ‘gni ttanto manna.

De uno se poteva vedé appena la faccia,
le spalle, er petto e parte de la panza,
e da li fianchi tutt’e dua le braccia.

La Natura de fatto operò bene,
a smette de creà quest’animali
e levalli da l’esercito de Marte.

E si nun se pente de sfornà balene
e liofanti, ar giudizzio der saggio
pare d’avé raggiunto l’equilibbrio;

che si a l’istinto der male e a la forza
aggiungi pure l’aiuto de la mente,
nun c’è scampo ar monno pe’ nnissuno.

La faccia der gigante lunga e grossa,
come la pigna de San Pietro a Roma,
er corpo de la medesima misura;

tanto che l’argine, che je cingeva
la vita, lasciava véde tutto er busto,
che tre Frisoni, uno sopra l’artro,

nun potrebbero arivà fino a la chioma;
a occhio avrei detto trenta parmi
da l’ombelico sú sú insino ar collo.

“Raphèl maì amèche zabì almi”
prese a gridà feroce quela bocca,
che nun conosceva canti più soavi.

Er duca mio je fà: “Anima sciocca,
contentete der corno, giocace pure
si l’ira o la passione te stravorge!

Ce l’hai legato ar collo co’ ‘na cinghia,
lo tieni addosso, oh anima confusa,
come ‘na doga te protegge er petto”.

E a me: “ Da come parla se capisce
che Nembrotto, co’ l’idea de Babbele,
confuse le lingue in tutto er monno.

È inutile sprecà artre parole;
che lui nun conosce quelle de l’artri,
e le sue nessuno le capisce.

Prennemmo pe’ na strada un po’ più lunga,
verso sinistra, e poco distante ecco
‘n’artro gigante più feroce e grosso.

Chi mai riuscí a legallo a ‘sta maniera!
er braccio sinistro stretto sur davanti,
dietro er destro, avvorto a ‘na catena

che je girava attorno come un serpe,
a partí dar collo in mezzo ar busto
s’attorcijava fino a cinque vorte.

“Superbo, volle provà si la potenza
reggeva ar confronto cor potente Giove”,
disse er maestro, “così sconta la pena.

Fialte fà de nome; e fu tra i primi
a spigne li giganti contr’ai Numi:
le braccia potenti mó ce l’ha in catene”.

“Si fosse possibbile”, je faccio,
vorei incontrà quer mostro de Briareo
che cià cinquanta teste e cento braccia”.

Me rispose: “Tra un po’ vedrai Anteo,
lui che parla e nun è incatenato
ce porterà ar fonno d’ogni male.

Briareo, che tu vôi véde, sta più avanti,
nun è diverso da questo, solo er grugno
è ancora più feroce e sta in catene”.

Un teremoto nun fu mai tanto possente
da scôte le tori come fili d’erba,
come se scosse Fialte in un momento.

Lí pe’ lí me spaventai a morte,
sarebbe bastata la paura si
nun l’avessi visto incatenato.

Più avanti arivammo dove sta Anteo,
che misura all’incirca sette metri,
senza la testa, da la cinta in sú.

“Tu, che ne la tera scerta dar destino,
dove Scipione la consacrò a la fama
sbarajanno l’esercito d’Annibbale,

tu, che mille leoni ciai pe’ ttrofeo,
si assieme a li giganti lí a Flegra
avessi combattuto contro Giove,

se dice ancora che avreste vinto;
nun esse sdegnoso, portece là sotto
dove Cocito se trasforma in ghiaccio.

Nun ce fa chiede aiuto a Tizio o Tifo:
quest’omo te darà quanto cercate;
chinete sverto senza storce er grugno.

Lui porterà ner monno er nome tuo,
lui che ancora vive e vivrà a lungo,
si la Grazia der cielo nu’ lo chiama”.

A ste parole der maestro, Anteo
subbito lo caricò co’ qquele mani,
che Ercole aveva gia sfidato.

Quanno se sentí preso Virgijo me fà:
“Accostete a me, fammete strigne”,
e me tenne a riparo dar gigante.

Come pare a guardà la Garisenda,
da sotto, che si ‘na nuvola passa
te senti che la tore te viè addosso;

così sembrò a me che Anteo pennesse,
mentr’ero attento a come se chinava,
a quer punto avrei voluto cambià strada.

Invece me posò come ‘na piuma
dove Giuda e Lucifero sò chiusi;
er tempo de chinasse e se drizzò

come fosse er pennone de la nave.

Dante

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