Fotografi e soldati
Amicizie in trincea
in Vietnam: così lontano da casa
20 anni
di Guido Alberto Rossi
Chi aveva vent’anni negli anni Sessanta ed era americano, riceveva una cartolina dal governo che lo invitava a contattare le forze armate e se poi era in forma, veniva arruolato, addestrato e quasi sicuramente mandato in Vietnam.
A seconda della fortuna, poteva finire imboscato in un ufficio o a sudare e sparare ed essere sparato in lungo ed in largo per il paese. Allora il rapporto di militari, per far funzionare la macchina bellica, era di cinque uomini nelle retrovie per ogni uomo in combattimento; quindi, la sfortuna era ridotta ad un quinto.
C’erano anche i volontari, che si arruolavano anche prima di ricevere la cartolina e avevano anche loro vent’anni, così come i sottotenenti che arrivavano direttamente dai collegi militari ed erano al massimo ventunenni.
Al seguito di tutto questo c’erano anche tanti fotografi, come me che venivo da Milano e siccome eravamo nel 1968/69 avevo vent’anni quasi esatti. Ovviamente c’erano anche i soldati più anziani, quasi tutti i sott’ufficiali di carriera e gli ufficiali con il grado dal capitano al generale, così come i fotografi già famosi che allora avevano intorno ai trent’anni, poco più o poco meno, ma che avevano già scattato tanti rullini e avevano fatto tante foto importanti altrimenti non sarebbero stati bravi e famosi. Io ero fresco di giornata un po' come le uova fresche e mi sentivo come il fratello di Alice nel paese delle maraviglie, (anche se le uniche meraviglie di Saigon forse erano le ragazze dei bar per noi ventenni).
Mi mancava l’esperienza ma non l’entusiasmo, poi ero circondato da altri coetanei che come me erano a migliaia di chilometri da casa ed alla sera sicuramente pensavamo di nascosto alla mamma. Credo che la stessa cosa l’abbiano provata i giovani legionari romani così come la provano tutti quelli che sono e saranno in guerra. Del resto, le guerre le fanno fare ai ventenni perché se fossero combattute dagli over sessanta durerebbero al massimo una settimana.
Il vantaggio di essere coetaneo della truppa facilitava molto i rapporti, avevamo più o meno le stesse cose di cui parlare, avevamo la curiosità reciproca di come vivevamo a casa, quali film ci erano piaciuti e discorsi così, come da Bar Sport. Questo rendeva più facile farsi accettare, perché il fotografo non deve mai dimenticare che è sempre un intruso armato di obiettivo la cui miglior regola è: mimetizzarsi con la carta da parati o meglio diventare un ectoplasma.
Il primo impatto dei soldati, appena arrivavi e venivi presentato al plotone o alla compagnia a cui eri stato assegnato, era diffidenza: eri il turista mascherato di verde che potevi andare e venire a piacimento mentre per loro la cosa era diversa: ci dovevano restare 365 giorni con il sole o con la pioggia prima di riprendere l’aereo per casa. C’erano comunque i turni di riposo, chiamati R&R, si potevano fare nei paesi limitrofi e lontani dalla guerra, ma eri comunque lontano migliaia di chilometri da casa.
La regola migliore che mi aveva insegnato Gianfranco Moroldo era quella che appena arrivavi, se non era più che necessario per il servizio, era di non iniziare a scattare subito ma investire questo primo tempo a farsi degli amici, almeno quello davanti o dietro di te che ovviamente sono quelli che, se le cose si mettono male, magari riescono a tirarti fuori dai guai. Poi durante le lunghe attese, e ce n’erano tante (il motto era: sbrigati e aspetta), cercare di capire quali erano i ragazzi con cui era più facile fare comunella, ovviamente se c’erano degli italo americani era scontato che venivi accettato più facilmente che dagli ispanici o dai ragazzi neri, che tendevano a fare gruppo a sé.
Era comunque importante se volevi poter fotografare in scioltezza chi volevi e come volevi fare amicizia anche con loro. Un sistema che funzionava sempre era quello di dare una mano extra professionale quando capitava; se quello che ti camminava vicino era caricato come un mulo, tra radio, armi, munizioni, borracce etc., e ti offrivi di portargli qualcosa (magari non tanto pesante e che comunque non intralciasse con le macchine fotografiche) era sicuramente apprezzato. Il più delle volte mi ringraziavano ma non accettavano, però la cosa veniva notata e divulgata e così salivo di un gradino nella scala dei valori tra i ventenni sudati, affaticati e lontani da casa.