#317 - 29 ottobre 2022
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Fotografia

Contraddittorie esperienze

La liberatoria

di Guido Alberto Rossi

La liberatoria non è il nome di una pizzeria e neanche di una bella signora che si toglie i vestiti, è il documento legale che autorizza il fotografo o il cliente all’utilizzo delle immagini di un soggetto che ha lavorato come modello/a. È una specie di contratto tra due professionisti indispensabile per poter usare le foto fatte, è chiamato in gergo Model Release (in inglese fa più scena) e in pratica è il diritto d’immagine della persona ritratta. È indispensabile per poter pubblicare delle foto che ritraggono delle persone, non è necessario nelle foto giornalistiche di fatti di cronaca. Oltre alle persone è necessario anche per dei beni materiali come case, barche, animali etc. e sempre in inglese si chiama Property Release.

La liberatoriaLa liberatoria

Nel corso della mia carriera, sia come fotografo che come titolare d’agenzia fotografica, ho scoperto che spesso chi sta dall’altra parte del banco non ha ben chiaro come funziona la questione, ci sono stati vari casi finiti per vie legali di modelle che nonostante la liberatoria firmata per il lavoro svolto sono state illuse da un avvocato cialtrone che, promettendo ricchezze fantasiose, ha trascinato in tribunale tutte le parti in questione: fotografo, agenzia pubblicitaria e cliente finale, sperando di estorcere dei soldi non dovuti ad almeno una delle parti.

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Fortunatamente i giudici non sono mai cascati nella trappola e hanno sempre riconosciuto il valore legale della liberatoria facendo anche pagare le spese legali alla controparte. Ci fu addirittura il caso di una ragazza dal grande seno ma dal cervello illuso da un avvocato degno di un personaggio di Danny DeVito che perseverò a perdere fino in cassazione. Condannata a pagare una grossa somma, sparì dalla circolazione per alcuni anni, poi grazie a Facebook si scoprì che aveva sposato un ricco americano e si era trasferita negli USA, un avvocato altrettanto perseverante è riuscito a recuperare il dovuto.

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Ma spesso mi è anche capitato d’avere a che fare con art directors o art buyers asini che della liberatoria ignoravano totalmente l’esistenza.
Sia io che le ragazze della mia agenzia abbiamo evitato alcuni pasticci che sarebbero costati un sacco di euro di risarcimenti. Tra i casi più clamorosi fu la richiesta della foto fatta in studio di un notissimo attore americano, che era nel nostro sito, per utilizzarla insieme ad un prodotto alimentare in una mega campagna stampa. Alla lecita domanda da parte nostra se avevano e potevano mandarci la liberatoria firmata dall’attore, ci siamo sentiti rispondere dall’ altra parte del telefono da una buyer asina ed arrogante che non erano affari nostri e che non era tenuta a farci avere niente. Gentilmente (con molta fatica) le abbiamo detto d’informarsi con qualcun altro al loro interno e di farci sapere. Chiamò il giorno dopo chiedendo di trovarle una foto di un modello (con liberatoria) che assomigliasse al divo.
Però ci fu anche il caso contrario, di un art director che voleva la liberatoria di due talebani che sparavano come matti in una via di Kabul e che il fotografo aveva immortalato a rischio della pelle.

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Ci sono anche i casi borderline, specialmente nella fotografia di viaggi, dove capita di inquadrare una campagna con dei contadini in terzo piano e totalmente irriconoscibili perché, o sono girati con la schiena all’obiettivo o talmente lontani da non essere riconosciuti neanche alla loro mamma. Oppure riprendere delle popolazioni etniche, vedi i Masai o gli Indios dell’Amazzonia dove è impossibile spiegargli il concetto di liberatoria e ancora più difficile fargli firmare qualcosa. Ovviamente può capitare che una di queste foto venga utilizzata in pubblicità e la liberatoria è meglio averla.

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Personalmente mi sono sempre preso il rischio, perché lo ritengo pari a zero. Ma le grandi agenzie fotografiche esigono una liberatoria anche per queste foto, ovviamente io gliele fornivo con tanto di croce e nomi inventati, quelle riguardanti persone cinesi me le facevo scrivere dalla proprietaria del Singapore (il mio ristorante cinese preferito).
Una volta come agenzia avevamo venduto un sequenza filmata delle Olimpiadi di Berlino per uno spot, siccome c’erano alcuni secondi con Hitler e la casa di produzione voleva una man leva, mi sono preso il rischio, sono ormai passati dieci anni e nessun nipotino di Adolfo è venuto a cercarmi.

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Ma il caso più clamoroso è successo una ventina d’anni fa, quando usci una campagna stampa ed affissione che aveva come protagonista un notissimo suonatore di tromba nero americano, sempre sudato. Era una bellissima foto scattata da un grande fotografo. Peccato che nessuno aveva chiesto i diritti al jazzista ed al fotografo per detto utilizzo. Finì bonariamente con un pesante assegno. Il tutto è successo perché un giovane art director prese la foto da un libro, non si sa se per asineria o doveva essere solo un esempio per il layout, sta di fatto che tutta la catena umana fino al cliente finale dava per scontato che era tutto in regola. Dell’art director non si sono più avute notizie.

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