#282 - 20 marzo 2021
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Racconto

Ignazio Montes

E il più forte calciatore del mondo

Parte prima

di Ruggero Scarponi

L’aereo portava ritardo e io cominciavo a spazientirmi. E m’ infastidiva stare in piedi dietro alle transenne dell’uscita viaggiatori, con in mano il ridicolo cartello sul quale avevo scritto, con un pennarello nero, il nome del tale che stavo aspettando.
Poi, all’improvviso, mi trovai davanti un “coso buffo” che rideva con un’espressione ebete, da una dentatura improponibile, su una bocca larga da sembrare uno squarcio, sotto certi zigomi puntuti e prominenti messi a forza dentro a una faccia sghemba, asimmetrica a dir poco e color cuoio.
Capii soltanto “Montes”, delle poche parole che disse, sputacchiando saliva marrone.
Me l’aveva raccomandato Carlos, un amico e anche il mio miglior corrispondente dall’altra parte del mondo.
Non seppi mai il perché. Carlos era già morto quando Ignazio Montes arrivò qui da noi.
Durante il viaggio in taxi tentai una conversazione, senza successo e così deluso e anche un poco irritato me ne stetti in silenzio per tutta la corsa, finché non arrivammo a destinazione, presso il centro sportivo dove avevo il mio quartier generale.
Dopo aver parlottato con il direttore del Residence che si occupava di assegnare le camere agli atleti feci capire a Ignazio Montes che poteva sistemarsi in una stanza al secondo piano e che poteva usare l’ascensore per evitare di trascinare il suo bagaglio, una logora valigia, su per le scale.
Ma il ragazzo o uomo che fosse, era impossibile decifrarne l’età, restò fermo, impassibile, a guardarmi come fosse ipnotizzato e così sempre più indispettito compresi che avrei dovuto accompagnarlo io stesso.
Lo precedetti nell’ascensore. Ma quello non si mosse e mi guardava come si guarda un bambolotto che apre e chiude gli occhi: pieno di stupore. Allora, paziente, gli feci cenno che poteva entrare nella cabina ma al mio invito oppose un netto rifiuto. Era evidente che non aveva mai visto un ascensore.
Con autorità lo afferrai per un braccio tentando di tirarlo dentro ma il tizio s’irrigidì e io mi resi conto che sotto il ruvido maglione di lana possedeva una muscolatura di tutto riguardo.
Era tozzo, alto non più di un metro e cinquantacinque-sessanta, con la testa incassata tra due spalle larghe, sproporzionate e con un fisico asciutto che sembrava si fosse seccato all’aria e al sole.
Che ci faccio con questo? Sbottai. Era una domanda che mi ronzava in testa fin da quando l’avevo accolto all’aeroporto e la seconda domanda era, perché mai Carlos che era un agente di prim’ordine me l’aveva raccomandato.
Cosa si può tirar fuori da questo selvaggio? Mi chiesi spazientito e perché Carlos si era mostrato così misterioso tanto da dirmi al telefono, non posso parlare adesso, poi ti dico.
Finalmente mi venne in aiuto Ramon, un nostro giovane atleta, chiamato dal direttore, che si era accorto di cosa stesse avvenendo all’ascensore.

Ramon che veniva dal paese di Ignazio Montes, ci parlò lungamente e dopo una serrata trattativa lo convinse a servirsi di quel mezzo per lui nuovo e incomprensibile.

Come Dio volle, salimmo insieme.
Una volta giunti al piano lo accompagnai in stanza e gli mostrai i vari servizi di cui poteva far uso, dal telefono, alla televisione, alla doccia ecc. Per ogni cosa il provvidenziale Ramon, traducendo nella sua lingua, fece in modo che comprendesse quello che gli dicevo.
Ora la questione era, visto che non potevo più contare sul caro amico Carlos, morto in un incidente d’auto mentre si recava in qualche sperduto villaggio a visionare atleti sconosciuti, per quale motivo aveva sentito l’esigenza di spedirmi quell’essere primitivo che di sicuro non poteva avere alcuna attitudine al gioco del calcio?
Ci pensai su e poi mi decisi. Servendomi di Ramon chiesi a Ignazio Montes se lui, sapeva il motivo per cui Carlos l’aveva spedito proprio a me.
Il piccoletto mi guardò smarrito e tramite il bravo Ramon mi rispose che lui non sapeva nulla e che pensava che fossi io a sapere il motivo.
La faccenda s’ingarbugliava e io temetti di essermi infilato in un vicolo cieco.
Questo egregio sconosciuto che mi era piovuto addosso come un temporale improvviso era arrivato in aereo con biglietto di sola andata, non aveva denaro e non conosceva nessuno che potesse prendersi cura di lui nel nostro paese. Per cui rischiavo di dovermene occupare io e la cosa non mi garbava affatto.
Nei penosi e faticosi giorni che seguirono cercai in tutti i modi di capire qualcosa di più del misterioso ospite.
Poi un mattino Ramon mi prese da parte e mi disse, senta mister, perché non lo mette in campo? Può darsi che il piccoletto, con la palla ci sappia fare, che ne dice?
Dico che non ci resta altro da fare se vogliamo venire a capo di questa faccenda.
Allora, disse Ramon con un certo entusiasmo, lasci fare a me. Ci penso io.
Visto sul campo Ignazio Montes era ancora più ridicolo, se possibile.
Con la maglia da calciatore, i calzoncini e gli scarpini tacchettati era talmente fuori luogo che a guardarlo non si poteva far a meno di ridere.
Non aveva nulla del calciatore.
Nessuna delle sue pose o movimenti si addicevano a un atleta del nostro sport.
Era terribilmente goffo, seppure vanaglorioso, in quella tenuta per lui di certo nuova e inconsueta.
Ramon! Chiamai a gran voce, non mi sembra il caso, aggiunsi allargando le braccia.
Un po’ di pazienza, mister, rispose il ragazzo.
Un quarto d’ora, dissi, dopo si lavora duro, intesi?
Intesi, assentì Ramon.
Ramon è un bravo ragazzo rimuginai tra me, ma da quel coso non tirerà fuori niente. Chissà cosa pensava Carlos quando me l’ha mandato?

Il nostro giovane atleta, provò e riprovò ma fu tutto inutile e invece del quarto d’ora che gli avevo concesso ci trascorse quattro ore, praticamente tutta la mattinata.

Con la palla, Ignazio Montes sembrava avesse i piedi triangolari tanto le traiettorie dei suoi calci erano improbabili e poi soprattutto non aveva la minima idea del gioco del calcio. Non ne conosceva le finalità e tantomeno le regole.
Deve esserci stato un equivoco, pensai. Carlos non può avermi fatto questo senza ragione. Ramon non si era potuto allenare. E per stare dietro a Ignazio non si allenò per tutta la settimana.
Ma quando arrivò la domenica giocò la sua partita senza risentirne minimamente.
Quel Ramon è un fenomeno mi disse il Direttore del Residence, grande appassionato di calcio.
Vincemmo due a zero con reti segnate entrambe da Ramon.
Il ragazzo aveva diciassette anni e io cominciavo a registrare nella mia agenda diverse opzioni di contratto con club di livello nazionale.
Ma aspettavo.
Non è ancora pronto, dicevo agli agenti che premevano per presentarlo ai loro presidenti.
(continua)

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