#260 - 4 aprile 2020
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Racconto

Una faccia sghembra

di Ruggero Scarponi

Da qualche tempo circolava, nel paesello di Civitella, una curiosa notizia. L’Adelina Colajanni, figlia di una famiglia di poveri contadini e malandata assai, nella testa e nel corpo, che se ne stava tutto il santo giorno a sproloquiare sulla soglia di casa con chiunque avesse vinto la naturale ripugnanza per la sua faccia sghemba e avesse avuto la carità di rivolgerle la parola, aveva cominciato a dare i numeri.
L’Adelina, all’epoca dei fatti, era appena adolescente, avrà avuto quindici, sedici anni al massimo. Ma tanto era stata colpita dalla malasorte che dei suoi anni pochi si curavano e pertanto che avesse, sedici, dodici o vent’anni non interessava praticamente a nessuno.
Era un poco gobba e mezzo sciancata ma soprattutto era la faccia che destava disgusto, tanto, che nemmeno in famiglia si aveva cuore di guardarla in viso.
Aveva un occhio storto e la mandibola, sghemba e prominente, obbligava la bocca, che brutta non sarebbe stata, a starsene sempre aperta lasciando colare di continuo un sottile filo di bava.
La povera non ne aveva consapevolezza e come poteva scambiare qualche suono inarticolato con qualcuno di passaggio, non mancava d’investirlo con spruzzi e schizzi da cui ci si poteva difendere soltanto abbandonando la posizione.

E così l’Adelina cresceva sola, scansata da tutti che non fossero obbligati, come i suoi di famiglia, a starle accanto.
A scuola c’era stata per la forma e per la legge ma non ne aveva ricavato nulla.
Con la testa non riusciva a star dietro alle lezioni, durante le quali si annoiava, cosa che per la verità non dispiaceva più di tanto ai suoi insegnanti che dopo un po’ la vedevano allungarsi sul banco e prendere sonno.
Così, almeno, non avrebbero dovuto sopportare lo spettacolo della sua faccia sghemba.
Cessato l’obbligo scolastico, per Adelina, non si trovò di meglio che metterla seduta su una sedia sull’uscio di casa, quando la stagione lo permetteva e nella cucina, di fronte al camino, quando pioveva o faceva freddo.
Per la verità c’erano almeno due persone che tenevano un po’ alla fanciulla.
Non certo i suoi di famiglia che poveri e ignoranti come erano, ne percepivano solo il peso, vergognandosene.
Il padre, poi, per il dolore di vedersi crescere una figlia in tali condizioni, si era dato al vino, così che quando tornava a casa la sera tardi, era talmente ubriaco da non accorgersi neanche della sua esistenza.
Madre, fratelli e sorelle la evitavano il più possibile, dandole il minimo indispensabile, nel vitto e nel vestiario, tanto, dicevano, Adelina non capisce.

Dunque c’erano due persone di buon cuore che se ne interessavano.
Uno era il maestro Tamburrini, che, era tornato a Civitella, suo paese natale, dopo essere rimasto vedovo, pensionato e senza figli.
Costui. Forse per la sua condizione, in solitudine anche lui, aveva preso a passare davanti alla casa di Adelina durante la passeggiata quotidiana, al mattino e alla sera prima di andare al caffè sulla piazza.
Vedendola sempre sola, seduta, in disparte, la testa incassata tra le spalle e le mani che si torcevano incessantemente, aveva iniziato, a soffermarsi per domandarle cose semplici, nella speranza di ricavare in risposta dei suoni che, si illudeva, nel tempo, potessero trasformarsi in parole.
E poi Donna Tecla, una matrona grande e grossa dal cuore tenero, divisa tra la chiesa e le opere di misericordia e che non dimenticava mai Adelina nelle sue preghiere prima di coricarsi.
D’abitudine andava a trovarla nel tardo pomeriggio, prima dei vespri.
Pur avendo ripugnanza per la sua faccia sghemba, non le faceva mai mancare una carezza e un piccolo dono, un dolcetto, un pupazzetto e cose simili.

Tamburrini, per la verità, qualche cosa aveva intuito di Adelina.
Ci aveva rimuginato su e poi era andato a parlare con Fioravanti, il dottore.
Senti Fioravà, lo interloquì in dialetto paesano, dato che si conoscevano fin dall’infanzia, la cratura…
Chi? Ribatté il dottore,
Ma si, la cratura, quella che chiamene la scimunita…
Si, mo te so capite. Stai a parlà de Adeline.
Eh, Adeline Fioravà, è de issa che voglio parlà.
E dai, allora che tengo d’andà a fa lu tressette…
E nu momento, mo s’aspette lu tressette, che c’haie na cosa ‘mportante da ditte. A Fioravà, a me me pare che Adeline scimunita nun è. Ecco mo te lo so ditte. Io ce parle quasi tutti li giorni…
Tu ce parle?
Bè, parlà proprio, non ancora. Ma secondo a me quella capisce e co certe cure specialistiche, capace che nu jorno potrà parlà pure issa come a te e a me.
Ma vattenne! Che me fai perde lu tressette pe’ ‘ste stupidate. Ma quando mai? Adeline, povera fije, nun capisce e nun ha mai capite. Fatica sprecata Tamburrì la tua. Lassa perde la fijola…
Il tentativo con Fioravanti era andato a vuoto ma per Tamburrini l’Adelina rappresentava un mistero.
Spesso, quando andava a trovarla, le si metteva di lato, per evitare gli schizzi di saliva e cominciava con dolcezza a parlarle.
Le diceva tante cose belle e poi che era una buona figliola e che di sicuro, se si fosse sottoposta a delle cure appropriate, sarebbe sbocciata come un fiore.
Tamburrini era convinto che sotto lo schermo della faccia sghemba con la bocca semi-aperta atteggiata sempre in una sorta ghigno, si celasse un’anima delicata fatta per la bellezza e la bontà.
E così dicendo passava tanto tempo con la fanciulla e ogni volta si convinceva di essere a un passo dalla grande rivelazione.
Era certo che stimolando la ragazza nel modo giusto si potesse riuscire a comunicare, con lei, magari con fatica all’inizio ma un poco alla volta era certo che Adelina avrebbe parlato.

Donna Tecla, invece, non si faceva simili intendimenti. Era una donna semplice e le bastava un gesto.
A volte mentre Adelina sproloquiando come il solito le prendeva la mano trattenendola tra le sue, senti va il cuore sussultare di tenerezza e non riusciva a trattenere le lacrime.
Per poco non le venne un colpo, quando, un mattino, Adelina parlò.
Zente cummà, le disse Adelina all’improvviso, alzando dritta la testa per guardarla con il suo occhio storto e raddrizzando la mandibola cadente, zente cummà, tu si bbone e te vojo addà sti du nummere.
Iòcali, iòcali subbeto e nun di ca te lo so ditte ie, zi capite cummà?
A donna Tecla poco mancò che venisse un colpo. Non so se più per l’imprevista parlata di Adelina o per la ripugnanza del viso mostrato in tutta la sua sgradevole asimmetria.
Fatto sta che non disse nulla, ma come avesse visto un fantasma corse via, per come poteva, data la mole e andò a rifugiarsi in chiesa da Don Luigi, il parroco.
Don Luigi, Don Luigi! Strillò trafelata, Don Luigi, un miracolo, un miracolo!
Ma Donna Tecla, disse il parroco mentre aiutava la matrona a sedersi su una panca, ma Donna Tecla calmatevi per favore, o potrebbe venirvi un…
Don Luigi, no, questa è grossa! Davvero.
Sì, va bene, piano però, la esortò l’uomo, piano e con calma ditemi cosa vi succede.
Adelina! Don Luigi, Adelina ha parlato!
Il parroco restò silenzioso per un poco e poi disse.
E con questo? Non mi sembra che sia una cosa da restare sconvolti. Un momento, ora mando a chiamare vostro marito così che possa riaccompagnarvi a casa.
Che Adelina avesse parlato, al parroco poco importava, scimunita era e scimunita restava, con o senza la parola, pensava il religioso, per cui…
Lo scetticismo di Don Luigi sconcertò Donna Tecla. Possibile, pensava, che di fronte a un fatto del genere il parroco resti totalmente indifferente? Era inaudito e perciò decise che non avrebbe detto altro e piano piano, con calma, rientrò a casa, da sola, senza attendere aiuto da alcuno.

Comunque, i numeri evocati da Adelina, uscirono per davvero.
Anche Tamburrini festeggiò l’evento visto che la ragazza li aveva dati anche a lui, i numeri.
E che i numeri li avesse suggeriti la povera, nonostante le raccomandazioni da lei fatte a non diffondere la notizia, in qualche modo uscì fuori.
Fu allora che i Civitesi cominciarono a guardare Adelina con altri occhi.
Qualcuno, prendendo a pretesto di fare una passeggiata, trovava il modo di fermarsi da lei per fare un poco di conversazione, con scarsi o nulli risultati, per la verità.
In fondo tutti speravano che la ragazza ripetesse il miracolo, cosa che non avvenne.
A distanza di anni, tuttavia, nel paesello di Civitella, pochi ricordano che Adelina, soprannominata la sproloquia, o la scimunita, come preferite, per la quantità dei suoni inarticolati che emetteva, pochi, dicevo, ricordano che un giorno parlò con proprietà di linguaggio, sebbene in dialetto stretto.
Molti, invece, si ricordano che seppe predire i numeri del lotto ma come una vecchia storia, di cui ormai, nessuno conosce più i particolari.

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