Zapping
Frammenti semiseri di cronaca televisiva
di Luigi Capano
Milly Carlucci non sbaglia un colpo. Con il suo nuovo programma “Il Cantante mascherato” è riuscita a convogliare su Rai1 gran parte del pubblico televisivo sbaragliando le emittenti “avversarie”.
Noti personaggi del mondo dello spettacolo – cantanti e non solo - si sono esibiti indossando una maschera teriomorfica che li rendeva irriconoscibili: frizzante preludio ai prossimi, imminenti, languorosi fasti carnascialeschi.
Non c’è dubbio che l’enigma dell’identità del “cantante misterioso” abbia reso irresistibilmente intrigante lo spettacolo. Il fascino del nascosto è un potente magnete per la psiche umana. Lo sanno bene i fabbricanti di uova di pasqua e quei tribali di fede musulmana che, con il pretesto peloso della morale, infilano le donne in grotteschi involucri catafratti, chiamati burka (per un malinteso senso di accoglienza siamo, di tanto in tanto, costretti ad assistere a queste pericolose pagliacciate anche nelle nostre città).
Ma la parte del leone l’ha avuta in questi giorni il sempre tanto atteso Festival di Sanremo condotto per la prima volta dall’ottimo Amadeus ben coadiuvato da Fiorello e da un nutrito numero di fascinose professioniste della televisione che si sono avvicendate nel corso delle puntate, da Diletta Leotta a Laura Chimenti, da Emma D’Aquino a Rula Jebreal.
D’acchito le canzoni non sembrano un gran che, a parte, forse, quella di Francesco Gabbani: fuori dall’ordinario nel testo e nell’interpretazione, come le precedenti del cantante toscano, d’altronde. Vi sono parole che sarebbero buffe in una canzone, se non andassero di moda: una di queste è “resilienza” - migrata nel linguaggio comune dal mondo elitario della tecnologia dei materiali - che ha già fatto capolino un paio di volte in questo festival (il quale, mentre scriviamo, è in via di svolgimento). Oltre che buffa è vagamente cacofonica, ma il linguaggio televisivo, si sa, è contagioso e un tantino ipnotico.
Sempre a proposito di parole che girano nei media, ce n’è una che non se la passa bene, a giudicare dalle reazioni degli astanti, non appena venga pronunciata: si tratta di “normalità”. Sembra non essere ormai, da lunga pezza, politicamente corretta, come si usa dire. Ritenuta da molti desueta, c’è sempre qualcuno che insorge, al suo cospetto. Ma la normalità è semplicemente la conformità a una norma. E, laddove si ritenga che debba esservi una norma, perché adontarsi di fronte alla normalità?
Oggi ci piace indugiare sulle parole – la TV non è fatta solo di immagini!- e c’è n’è un’altra, da un po’ di tempo sdoganata dopo lunga quarantena: parliamo di “razza”. Avvezzi a sentirne il suono nella variante maschile di “razzismo” (in un’accezione negativa ovviamente ma, come ci insegnano gli psicologi, gli opposti vanno volentieri a braccetto), da un po’ di tempo, dal pulpito catodico, certi paludati accademici vanno, con azzardo, cianciando di “razza umana” in omaggio, anche qui, al “politicamente corretto” confondendo, incredibile dictu, la razza con la specie.
Il rischio è che, con queste frivole approssimazioni, rischiamo di infilare un irreversibile cul de sac. Dato che la “razza umana” da sempre sfrutta le altre “razze” (con che diritto? con quale pretesa di superiorità?): pensiamo alla povera “razza bovina”, alle sciagurate “razze ittiche”. E che dire, infine, delle miserrime razze vegetali?