Lo strano caso del Conte Vetzer
di Ruggero Scarponi
Nella brumosa pianura sorgeva solitario un castello.
Piuttosto tetro si sarebbe detto, a causa del suo proprietario, il conte Vetzer, un uomo solitario che non riceveva mai nessuno.
Una sera, nel pieno dell’inverno bussò alla porta del vetusto maniero un giovane.
Il suo nome era Tzever.
Cosa desiderate signore, chiese il conte Vetzer, non stavo aspettando visite.
Ne sono certo, rispose il giovane, ma vi prego di alloggiarmi per questa notte. Data l’ora tarda e la bufera che si è fatta impetuosa temo che sarebbe imprudente proseguire nel mio cammino.
Il conte Vetzer non rispose ma si fece da parte sull’uscio.
Il giovane entrò nella dimora del conte Vetzer proprio nel momento in cui una folgore percorreva il cielo per intero illuminando la pianura.
Posso domandarvi cosa vi porta in queste remote terre, signore? Chiese il conte.
Sono un cacciatore dilettante e durante l’inseguimento di un magnifico cervo credo di aver perso l’orientamento. Questo, mi ha portato a bussare alla vostra dimora, signore…
Vetzer, io sono il conte Vetzer, voivoda di questa provincia per antica discendenza e voi, invece, un cacciatore? Chiese meravigliato il conte, non vedo armi con voi.
Avevo una carabina e anche due buone pistole. Purtroppo durante la tempesta un fulmine ha spaventato il mio cavallo che impennandosi mi ha sbalzato di sella per poi fuggire come un’anima dannata chissà dove, insieme alle armi, ai bagagli e ai miei denari. Pertanto caro Conte non ho come ripagare la vostra ospitalità per questa notte, ma me ne faccio un dovere di farlo, cessata la tempesta, appena potrò tornare nella mia casa. Al più presto invierò un servitore con il dovuto.
Sarei un pessimo ospite, si schermì il conte, se accettassi del denaro da chi chiede un riparo durante una notte tempestosa. Quietatevi piuttosto e riscaldatevi davanti al caminetto. Vi arde un bel fuoco, l’ho acceso io stesso.
Il conte aiutò il giovane a liberarsi del mantello zuppo di pioggia che appese a un gancio ai lati del camino e poi con garbo gli fece cenno di accomodarsi su una poltrona proprio davanti al fuoco.
Il giovane Tzever non poté evitare di essere scosso da un brivido appena il calore della fiamma lo raggiunse.
Scusatemi, disse il conte, se per un po’ diserterò la vostra compagnia ma dalle nostre parti questa è l’ora della cena e devo andare a sincerarmi che tutto sia predisposto per tempo. Sebbene la nostra sia una cucina semplice e campagnola sarò onorato di avervi alla mia tavola, signore. Per intanto riposatevi e se vi riesce, appisolatevi senza problemi, penserò io a svegliarvi.
Caro conte voi siete il migliore degli ospiti. È stata una vera fortuna trovare la vostra dimora sulla mia strada. E intanto accetterò di buon grado il suggerimento e lascerò che le mie stanche membra si riposino su questa poltrona e al calore del vostro fuoco.
Il conte Vetzer preparò egli stesso la cena non disponendo di alcun servitore nel castello.
Quando i cibi furono cotti a puntino svegliò il giovane cacciatore e lo fece accomodare alla sua tavola.
E mentre questi mangiava avidamente il conte Vetzer prese a narrare le vicende storiche legate al vecchio maniero.
Queste mura hanno conosciuto più di cento battaglie, esordì il vecchio castellano, senza che un invasore le abbia mai profanate. Nemici provenienti dall’oriente e dal meridione tentarono più volte di sottomettere i miei antenati con l’unico risultato di riempire con il loro sangue i profondi fossati che circondano il castello.
Durante le notti illuminate dal plenilunio, passeggiando sugli spalti delle mura mi sembra di udire ancora il fragore di quelle battaglie e le grida disperate degli invasori ricacciati indietro e fatti precipitare nel vuoto.
Per ultimi vennero i feroci barbari dall’Asia.
Toccò a me fronteggiarli. Ancora oggi i loro discendenti tremano a sentire pronunciare il nome di Istvan Vetzer l’impalatore. Sì, con questo epiteto sono ricordato, avendo straziato più di cinquantamila di quei diavoli con l’infamante tortura.
Per secoli questa dimora ha retto l’urto delle orde dei Khan e dei Giannizzeri della Sublime Porta, guadagnandosi il titolo di Sentinella del Sacro Romano Impero.
E a noi Vetzer compete l’onere e l’onore di serbarne la reputazione.
Che storie straordinarie mi state raccontando, caro conte, ne sono deliziato, disse il giovane. Io, ahimé, non conosco molto la storia di questa voivodato, ma di certo ho udito parlare delle vostre magnifiche imprese.
Poi osservando che il conte non aveva toccato cibo e nemmeno bevuto un sorso di vino disse, dunque avete fatto preparare tutta questa cena solo per me, conte, non avete toccato cibo questa sera…
È vero, ma di solito non prendo nulla la sera, per non gravarmi il sonno, che alla mia età tarda a venire e facilmente svanisce.
Oh, ma voi signore, esclamò improvvisamente il conte, dovete scusare la mia villania, dovuta purtroppo alla vita ritirata che conduco e che mi ha fatto dimenticare i modi più urbani. Invece di parlare di me avrei dovuto chiedere di voi, vogliate perdonare un vecchio campagnolo e vi prego, parlatemi un poco, chi siete e da dove venite.
Ah, conte Vetzer, per la verità le storie riguardanti me o la mia famiglia non sono così interessanti come le vostre. La mia è una famiglia di modesti Gastaldi, piccoli nobili, cui i Grandi del Banato hanno affidato la cura di terre e proprietà . Grazie all’umile lavoro e alla conoscenza dell’agricoltura i miei antenati sono riusciti a costruire una solida ricchezza che ancora oggi i miei genitori e zii custodiscono con cura.
E voi, signore? Lo interruppe il conte, vi occupate soltanto di caccia?
Ah, no di certo, rispose pronto il ragazzo, in verità per me la caccia è un passatempo del tutto eccezionale, per questo, forse, i miei risultati sono piuttosto modesti in questo campo.
E dunque? lo incalzò il conte.
Il giovane Tzever, bevve una lunga sorsata di vino prima di rispondere e poi disse.
Mio padre volle farmi studiare l’economia. Nella sua mente sarei dovuto diventare Maestro del tesoro presso il nostro Principe Palatino.
Ma voi non lo accondiscendeste?
No, non per caparbietà o disubbidienza. Fu il caso a farmi cambiare strada.
Anche la vostra storia si fa interessante, signore, ve ne prego, continuate.
Sì, caro conte, fu durante un viaggio nella Capitale che venendo a contatto con tanti uomini d’ingegno, finanzieri e mercanti sviluppai una prodigiosa capacità nel comprendere gli affari economici. Senza quasi rendermene conto ero diventato abilissimo nel mercato della compravendita e soprattutto di quella più redditizia.
E cioè?
Gli immobili, caro conte. È con la compravendita degli immobili che si fanno molti soldi.
E quindi voi praticate questo mestiere, adesso? E il vostro incarico al servizio del Principe Palatino?
Fu, mio padre, visto il successo che avevo raggiunto in poco tempo, a farmi lasciare gli studi e ad affidarmi la cura degli immobili di tutta la famiglia e anche dei Signori di cui eravamo intermediari. E devo dire, senza falsa modestia, caro conte, che i risultati furono ben più brillanti che non nella caccia.
Me ne compiaccio, signore, me ne compiaccio, anzi, forse io stesso avrei da chiedervi una consulenza in proposito, per acquistare una casa nella città di Londra, nella lontana Inghilterra dove dovrò recarmi per certi affari…ma non stasera, state tranquillo, domattina, quando sarete riposato, dopo una buona dormita.
Per la verità il conte restò ancora molto tempo a conversare con il giovane Tzever.
Il vecchio castellano, infatti, doveva ammettere con sé stesso che la presenza del ragazzo lo inquietava per qualche misterioso motivo.
Lo inquietava e turbava allo stesso tempo. Egli desiderava ascoltarlo, anzi pendeva letteralmente dalle labbra del giovane e fu solo dopo un certo tempo che ne comprese il motivo.
Era attratto in maniera lubrica dalla sua bocca.
Il vecchio castellano, rude guerriero, implacabile massacratore di nemici, era sopraffatto da un senso di voluttà e da inconfessabili desideri.
Più il ragazzo parlava e si dilungava a raccontare dei suoi traffici o della vita nel gastaldato della sua famiglia più il conte se ne sentiva attratto.
Maledetto vecchio! imprecava con sé stesso, in preda al più profondo turbamento, sei forse diventato una femmina! E continuava dicendo, sono stato in guerra fianco a fianco con il fior fiore della gioventù magiara, senza mai provare per essi ciò che ora sto provando per questo giovane. Ho amato più di cento donne, dame cortesi, popolane e contadinelle e quando ho dovuto umiliare i miei nemici li ho sconfitti sul campo e ne ho violato le donne!
Eppure, anche mentre rimuginava tali pensieri, il colore vermiglio della bocca del giovane Tzever lo sollecitava in maniera inusitata e sconcia.
Finalmente stanco per le fatiche della lunga giornata, il giovane Tzever chiese di potersi ritirare a riposare su un letto di fortuna senza che il conte si disturbasse a fargli preparare una camera.
Mio giovane amico, disse il conte, il castello conta più di venti stanze, oramai deserte la più parte, pertanto non sarà certo un disturbo offrirvi una stanza.
Il giovane si ritirò e così pure fece il conte dopo aver rigovernato la cucina e predisposto tutto il necessario per la colazione dell’indomani.
Ma durante la notte, il conte, nel mentre che era addormentato fu colto da un malessere, una febbre che lo obbligò, prima a disfarsi delle coltri, trovandosi coperto di sudore e poi a levarsi per cercare sollievo all’aria notturna. Per questo aprì la finestra, per respirare con voluttà l’aria fresca. Ma appena liberatosi dai veli del sonno subito fu sopraffatto da un turbinio di visioni molli e languide in cui sempre campeggiava provocante e irridente la bocca vermiglia del giovane Tzever.
Sentì forte il desiderio di chiedere aiuto, di affidarsi a qualche santo a…Dio. Cercò un crocifisso, un’immagine sacra, ma da tempo nel castello tali oggetti erano stati banditi. Cadde in ginocchio, giunse le mani per recitare una preghiera…non conosceva preghiere o forse non ne ricordava più nessuna.
In preda al terrore e a una furia rabbiosa prese la vecchia spada appesa a un chiodo nel muro della sua camera e con l’arma in mano si diresse come uno spettro verso la stanza del giovane Tzever.
Non capiva bene cosa gli stesse succedendo si sentiva in balia di voci e richiami di tutti i tipi. Mille voci lo chiamavano presso il giovane che dormiva placido nella stanza che il conte gli aveva assegnato e mille altre lo schernivano, lo insultavano a causa del languore che tutto lo pervadeva.
Allora con uno sforzo terribile aprì la porta della stanza di Tzever e brandendo la spada si fece avanti per trafiggerlo.
Ma ancora una volta fu sconvolto alla vista della bocca del giovane che illuminata da un raggio di luna rifulgeva turgida e vermiglia.
Se ne sentì attratto. Desiderò baciarla impudicamente.
L’orrore di tali pensieri gli paralizzò le membra.
Un sudore freddo lo stremò fin quasi a farlo cadere.
Barcollò come un ubriaco.
Tentò di gridare ma dalla gola non uscì nessun suono.
La spada gli cadde di mano.
Un tremore gli salì per la spina dorsale e una voluttà struggente lo costrinse di nuovo a desiderare le carnose labbra del giovane.
Dopo un istante di stupore fece per gettarsi sul ragazzo.
Reso pazzo dall’orgasmo prese il volto del giovane con le mani per cercarne bocca.
Su quella carne si abbandonò lascivo.
Una folgore squarciò con un bagliore accecante la notte.
Gli occhi del giovane si accesero.
Sul suo volto apparve un malefico ghigno.
Al mattino seguente il conte non si risvegliò.
Solo al tramonto si accorse con stupore che provava un insopportabile tedio per la luce del giorno.