Dalla nostra inviata alla XIV edizione della Festa del Cinema di Roma 2019
Roma - Auditorium della Musica
Il teatro sostiene il cinema
Di Margherita Lamesta
Tra il Nuovo e il Vecchio Mondo la roccaforte resta il teatro.
Se Fanny Ardant annulla la distinzione di genere, portando il focus sulla persona con il suo background di sentimenti, delusioni e illusioni, e Edward Norton asserisce che “se scalfisci la superficie di un attore trovi un’attrice”, ambedue tengono salda l’importanza del teatro. Il tributo offerto dall’esperienza on stage rappresenta “la muscolatura” (E. Norton) che permette all’avventura cinematografica di esistere, per un attore.
Questo emerge da alcuni tra i più interessanti incontri ravvicinati organizzati da Antonio Monda per la 14esima edizione della Festa del Film di Roma. Forti dell’unicità del testo, digerito dentro l’attore, a teatro, non si teme la frammentarietà peculiare dell’esperienza di shooting – aggiungono i due divi.
Il protagonista de “La 25esima ora” ha aperto la rassegna romana con la sua opera prima “Motherless Brooklyn”. Un noir carico d’intrighi politici e famiglie disfunzionali, dal plot non propriamente brillante, di linea narrativa classica, con un finale un po’ a lungo tirato in avanti, ancorato però al suo straordinario talento d’attore. Interessanti i movimenti di macchina.
Lontano da una visione romantica del mestiere interpretativo, Norton si offre al pubblico con semplicità e franchezza, affermando l’importanza di gestire in modo artigianale e specifico gli strumenti necessari ad ogni tipo di lavoro e linguaggio, che sia un dramma, un musical o una commedia.
Il film mette in scena la rabbia del protagonista trasformata nei suoi tic autistici, che cadenzano tutta un’esperienza e uno sforzo interpretativi al servizio della pellicola, riuscendo a catturare il pubblico ancora una volta in modo notevole.
Stessa intensità interpretativa ci restituisce la musa di Truffaut, Fanny Ardant - protagonista del film “La Belle Epoque” di Nicolas Bedos - che ha affascinato il pubblico con la sua propensione verso il caos e col suo elogio del verbo e del pensiero, richiesti con forza dal teatro.
“Il silenzio ti lascia solitario mentre il caos ti permette di concentrarti”- sono state le parole di una donna, che ha preferito il piacere e la fede alle strategie e che non ha mai avuto il bisogno di essere femminista per non sentirsi schiacciata dagli uomini, in famiglia come nella professione.
Passato e presente, realtà e finzione, teatro mescolato allo schermo, tutto è ciclico e fluido nel film del giovane cineasta francese, con tempi giusti e un ritmo privo di cedimenti. Il gioco di un passato d’amore e ispirazione, che ritorna con forza immutata attraverso qualcun altro capace d’illuderti e condurti a una rinascita, consapevolmente, funziona e chiarisce ogni cosa apparentemente distante. E la maschera di un tempo che finge di non passare lascia il posto alla gioia autentica del ritrovarsi.
Evanescente il confine tra cinema, teatro, realtà. Fanny Ardant, istintiva e di classe, è supportata da compagni di viaggio talentuosi e ipnotici. Tutta la vita è un palcoscenico. Non v’è cesura ambientale o storica che possa fermare il tumulto dell’animo umano o placare i suoi interrogativi esistenziali.
Ci sono temi che “attraversano tempo e confini, per il semplice motivo che appartengono all’Uomo”, dice anche Martin Scorsese con “The Irishman” prodotto da Netflix. È onorato di essere paragonato a “C’era una volta in America”, in conferenza stampa, e molto soddisfatto per aver lavorato finalmente con Al Pacino, a cui lo lega una lunga amicizia sin dal 1970.
Un film sui temi cari al Premio Oscar italo-americano, girato con i suoi amici, dalla chiave linguistica diversa tuttavia. È la summa dei tanti personaggi nati dentro il suo genio di cineasta, meno spettacolare però, perché “quel che conta è lo spettacolo interiore”. La pellicola non scade mai nell’apologia del cattivo, tenendolo sempre a una certa distanza dal pubblico. C’è malinconia nel Frank di de Niro, fagocitato dal tempo, il solo capace di annebbiare i confini, confondere potere e soprusi e far accettare la mortalità delle cose dell’uomo. L’aridità della solitudine indorata da un senso di religione naturale, necessario per l’animo umano, prende piede e affonda dritto al cuore, stingendo su qualcosa di universale: la fine e l’oblio.
Perfetti gli attori, emozionano ad ogni sequenza, dimostrando un feeling professionale di grande spessore. Utile l’uso dei CGI per ringiovanirli, avendo scelto di raccontare uno spaccato di mezzo secolo, ma purtroppo un tantino distonici rispetto a gesti e andatura.
A metà Festa tanti gli spunti su cui riflettere, chissà che non esortino all’azione, proprio come recita la Marianne di Fanny Ardant e come auspica lo stesso Martin Scorsese. Il Maestro, cavalcando i tempi che corrono e preoccupato di una sacrosanta libertà creativa, è a favore di un cinema con maggiori possibilità di realizzazione e non trova così importanti le modalità di fruizione. “Prima o poi i film vanno anche in sala” – ha affermato.