L'Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni
Quel che resta
Vito Teti - Prefazione di Claudio Magris - Donzelli Editore
«Mentre scrivo queste righe, il campanile di Amatrice cade sotto la forza del terzo terremoto che ha colpito, in meno di sei mesi, i paesi dell’Italia centrale.
L’immagine del campanile viene riproposta ossessivamente.
È una sequenza che angoscia e che però chiede di essere guardata e riguardata.
Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno».
Scrive così Vito Teti, nell’incipit di questo libro che riannoda il filo di una riflessione iniziata quindici anni fa con Il senso dei luoghi, un saggio che ha dato vita a un vero e proprio filone a cavallo tra antropologia, reportage, letteratura e fotografia.
Nell’immagine del campanile di Amatrice, Teti scorge un mondo ben più vasto, che va anch’esso inesorabilmente franando. Mentre i grandi agglomerati urbani si preparano a ospitare la gran parte della popolazione mondiale, interi territori si spopolano.
E lo spopolamento è la cifra delle aree interne di numerose regioni d’Italia e d’Europa.
Di fronte a questo scenario, l’antropologo coglie l’abbandono come la forma culturale dello spopolamento e si chiede: cosa fare dei segni del passato, delle schegge di un universo esploso?
Nella prospettiva di Teti, il passato può e deve essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità suscettibili di future realizzazioni. In agguato, certo, c’è il rischio che la retorica e la nostalgia restaurativa seppelliscano quel poco che, del paese, resta.
Viceversa, la nostalgia positiva, costruttiva può essere sostegno a innovazione, inclusione e mutamento.
Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, allora quel che resta è ancora moltissimo.
L’antropologia dell’abbandono e del ritorno, di cui Teti definisce in queste pagine i tratti essenziali, è un tentativo d’interpretazione dei luoghi a partire da quel che resta, e che occorre ascoltare, prendendosene cura.
Come scrive Claudio Magris nella prefazione: «In questo libro di scienza e di poesia c’è una profonda partecipazione al destino nomade e ramingo non solo degli emigranti partiti con le loro povere cose, ma di ognuno, delle stesse civiltà , del loro nascere e passare, ma forse mai definitivamente».