Da remocontro - la virtù del dubbio
Insolito Piero Orteca che nascostamente, sulla prima guerra mondiale
ha scritto pure un libro diventato testo in qualche università italiana.
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Caporetto 'cent’anni e un giorno'
Di Piero Orteca, 24 ottobre 2017
I segreti di Orteca e quelli di Caporetto. Disfatta militare e politica con il ' commissafriamento' alleato. Quando i generalissimi Foch e Robertson spedirono sei divisioni alleate per aiutarci, ma... ...pretesero di avere l'ultima parola su tutto.
'Cent’anni e un giorno'. Giusto un secolo fa, la mattina del 24 ottobre 1917, cominciava la XII Battaglia dell’Isonzo.
Detto così potrebbe sembrare solo un’annotazione per gli studiosi di storia militare. Ma chiamata col suo vero nome, questa funesta ricorrenza suscita ancora oggi, in tutti gli italiani, un moto di frustrazione: Caporetto.
Da allora questa località, oggi in Slovenia, è sinonimo di sconfitta senza appello, di catastrofe nazionale, di frattura profonda e irreversibile tra Paese reale e Paese legale. A Caporetto non fu battuta e umiliata solo l’Italia, fu sconfitta un’intera epoca fatta di vuoti simulacri patriottardi e di falsi perbenismi.
Perché tutte le guerre sono terribili e molto sciocche, ma il primo dei conflitti mondiali fu forse il più ignobile di tutti, dato che, dopo un secolo, gli storici si affannano ancora a cercare di comprenderne le motivazioni, quelle cause che trascinarono nell’abisso dieci milioni di esseri umani. Senza un vero perché.
Imperi decadenti e potenze rampanti, che cercavano il loro “posto al sole”? Egoismi di classi dirigenti che difendevano fino alla morte i loro interessi nazionali? Gelosie e velenose invidie trasversali tra i monarchi del tempo, tutti imparentati tra di loro? O, più semplicemente, palese incapacità delle diplomazie di parlarsi e farsi capire, mentre i militari, emarginati da quarant’anni di pace, premevano per dare un significato alla loro esistenza?
Più Freud che Talleyrand, insomma, con l’aggravante che, al contrario di oggi, le masse popolari non avevano alcun ruolo per potere realmente “pesare” sulle decisioni dei loro governi. Molto è stato scritto sugli aspetti squisitamente militari della disfatta di Caporetto. E non è certo questa la sede per riaprire pagine le cui analisi convincono fino a un certo punto.
Potremmo sintetizzare l’evento con una considerazione elementare: dopo due anni e mezzo di attacchi folli e dissennati, utili solo a “conquistare” un mucchio di pietraie, l’Italia fu colta di sorpresa al primo vero contrattacco in grande stile del nemico. C’era stata, è vero, la “Strafexpedition” del 1916, condotta dagli austriaci sull’Altipiano di Asiago, durante la quale avevamo rischiato un primo rovinoso sfondamento del fronte.
Ma allora i tedeschi non c’erano e, anzi, il capo di stato maggiore di Guglielmo II, Von Falkenhayn, si era categoricamente rifiutato di spostare truppe da oriente. A Caporetto, invece, spuntarono diverse unità d’èlite del Kaiser (c’era pure Rommel), che furono determinanti. Soprattutto perché i piani d’attacco erano stati elaborati dagli Alti comandi di Berlino.
Piani innovativi e sorprendenti che, come in una sorta di “Blitzkrieg” ante litteram, prevedevano un attacco in profondità lungo le valli, senza curarsi dei nemici che presidiavano le cime. Così, quando gli slesiani della 12. divisione tedesca sfondarono il fronte sciamando lungo la Valle dell’Isonzo, la slavina divenne, a cascata, una valanga. Un vero e proprio “effetto farfalla” applicato alle dinamiche non lineari della guerra, con tanto di corollari aggiuntivi, che molto hanno a che fare con la Teoria del Caos e con quella delle Catastrofi. E fu “caos” e fu “catastrofe”.
La Seconda armata italiana si liquefece e, con una reazione a catena, crollarono come birilli gli altri capisaldi del sistema (offensivo) di Cadorna, presi in contropiede. Gli austro-tedeschi dilagarono, cogliendo tutti di sorpresa. Noi e loro.
Noi fummo annichiliti, dopo 30 mesi di inutili capocciate contro un muro di calcestruzzo che ci erano costate una caterva di morti e zero guadagni (significativi) dal punto di vista territoriale. I nemici, però, non pensavano che avrebbero combinato cotanto macello e avevano “dosato” le forze per raggiungere obiettivi meno ambiziosi di quelli che ora gli si paravano davanti. Blitzkrieg? Fino a un certo punto. Noi correvamo all’indietro e loro correvano in avanti, allungando a dismisura le linee di rifornimento e lasciando per strada tutta l’artiglieria media e pesante, intrasportabile a quella velocità.
Risultato: il Piave e il Grappa segnarono l’epilogo di una trama che era stata scritta inevitabilmente fin dall’inizio. E fu un bene per noi e un male per loro, che per attaccare avrebbero dovuto rischiare di perdere tre volte più uomini di noi. Le tragedie in stile battaglia dell’Ortigara, un’altra “perla” dell’ottusità cadorniana, ora toccavano ai soldati di Vienna. Caporetto, paradossalmente, per gli Imperi centrali fu solo l’inizio della fine.
Ma resettiamo le riflessioni sul terreno militare e diamo uno sguardo, invece, a quello della politica e, passatecelo, al contorno socialnazionale. Caporetto fu la scossa di terremoto che molti temevano e che molti altri aspettavano. Il governo cadde, anzi crollò in una nuvola di calcinacci. Orlando sostituì Boselli, Diaz sostituì un siluratissimo Cadorna e gli anglo-francesi si sostituirono agli Alti comandi italiani.
Di fatto fummo commissariati, mentre il Paese entrava in ebollizione e si preparava un clima da “tutti contro tutti”, che in seguito avrebbe portato al fascismo. Quando i generalissimi Foch e Robertson seppero che tutto quel macello era stato combinato da sette sole divisioni tedesche (e da otto austriache) uscirono dai gangheri, spedirono sei divisioni alleate ad aiutarci, ma pretesero di avere l’ultima parola su tutto.
Da allora, lasciatecelo dire, la musica non è cambiata. Arriva sempre qualcuno a commissariarci o a pretendere di farlo. Una volta erano gli americani ad avere in esclusiva quest’appalto, oggi ci si è messa anche l’Unione Europea.
No, non siamo disfattisti, anche se per questo peccato all’epoca di Cadorna ci avrebbero messi al muro. Adesso siamo liberi, ma fino a un certo punto. Ci portiamo ancora addosso il trauma di una sconfitta che ha cambiato, nel bene e nel male, il nostro modo di essere “nazione” e forse la nostra autostima. Caporetto, cent’anni e un giorno.