Tra le "voci" artistiche della Calabria
Amore per la pietra
Arte spontanea di Micuccio Morfea (1912-2001)
di Antonio Bruni
Cominciò come scalpellino: tagliava le pietre per l’edilizia (case, muri, strade, ponti) e ne aveva appreso tutti i segreti. Conosceva le venature, i versi della materia e sapeva trovarne i punti deboli. Incidendo con scalpello e mazza, riusciva tagliare un masso senza rovinarlo. Nelle sue mani la roccia diventava morbida, mansueta, fino a rispondere alle sue intenzioni.
Micuccio Morfea, nato nel 1912 a San Pietro di Caridà , al confine tra le province di Reggio e Vibo, passò poi la vita nel paese della moglie, Dasà . In Calabria, chi proviene da un altro comune, anche vicino, resta sempre un forestiero e lui, a Dasà , lo era ancora di più per la sua arguzia e per il gusto di parlare in versi, con la rima. Il suo amore per l’espressione artistica passava dalla poesia alla scultura.
Negli anni 60, con l’introduzione dei mattoni, Morfea non trovava più lavoro come scalpellino e si mise a fare il contadino e altri piccoli lavori ma gli rimase la passione per i sassi, ormai inutili nell’edilizia. Aveva frequentato solo le elementari e aveva una gran voglia di conoscenza, alimentata da una forte intelligenza. Prese in mano i libri di scuola dei nipoti e leggendoli, conobbe le riproduzioni delle sculture greche e romane, Michelangelo e Bernini. Rimase affascinato da queste opere e iniziò a riprodurle alla sua maniera, interpretandole. Giano bifronte divenne una duplice faccia di giovane calabrese; la Bocca della verità , un mascherone di donna tonda con la linguaccia; la Pietà , uno strazio materno contadino, le decorazioni dei sarcofagi si tramutavano in allegri festoni a frammenti.
Fece un busto di suo padre per il cimitero, poi quello di un nipote morto giovane. Qualcuno tentò una commissione funeraria ma andò male: si volevano visi dolci, smielati, invece le sue figure avevano tratti rudi, con le rughe da intemperie e lo spirito grinzoso, rispondenti alla fisiognomica locale. Tentò di ritrarre qualche faccia che lo aveva colpito: un uomo affannato dal collo grosso, un prete arcigno, una donna dallo sguardo chiuso.
La forte superstizione dei calabresi tendeva a rifiutare i ritratti (mi caccia l’anima, è di malaugurio!). Erano accettati di più i lavori decorativi: vasi, bassorilievi, insegne perché non implicavano un difficile giudizio estetico. In pochi capivano la sua capacità di indagare artisticamente le immagini dei suoi compaesani. Morfea non si curava di derisioni e indifferenza e creava in continuazione, alla ricerca di nuovi tagli espressivi. Amava molto la serpentina, una pietra igroscopica che diventa verde se inumidita e che dà un buon risultato di superficie semi ruvida. L’asperità di questa materia si presta bene alla durezza dei volti calabresi che fino agli anni settanta erano provati dalla povertà .
Andava a cercare la serpentina lungo torrenti impraticabili. Mi ricordo che portammo su a braccia per un dirupo, dal fondo di una fiumara, un sasso di circa quaranta chili. Nelle figure riusciva a dare il meglio di sé: Bagnante, un piccolo nudo (60 cm) di donna matura in piedi, che pudicamente si copre i seni, è forse l’immagine della moglie, non disponendo di altre modelle. Il suo capolavoro è, a mio giudizio, Marabuta (serpentina 50x25x30), che in dialetto calabrese indica la monaca di casa, usanza non rara nei paesi. Sono le donne che si vestivano da consacrate, anche se non lo erano e restavano a vivere in famiglia.
Micuccio Morfea, morto a Dasà nel 2001, può essere considerato un vero artista contadino, autodidatta e spontaneo, interprete dei volti della sua terra negli anni in cui l’antica civiltà contadina stava scomparendo. La sua figura e le sue opere, stimate in duecento lavori, devono essere ricordate tra le espressioni artistiche calabresi del 900.