Armiamoci di Pace
Nolan e Joffé a confronto
di Margherita Lamesta
Dedico questo premio a chi porta la pace nel mondo – le parole di Cillian Murphy, la notte degli Oscar 2024, premiato come miglior attore protagonista per l’interpretazione dello scienziato J. Robert Oppenheimer nel film omonimo di Christopher Nolan, che di Academy Awards se ne aggiudicò altri sei: miglior film, regia, attore non protagonista, fotografia, montaggio, colonna sonora.
Benché si attenda, trepidanti, l’uscita del film The Odyssey, prevista per luglio dell’anno venturo,
con Matt Damon nuovamente diretto da Nolan dopo Interstellar, è difficile non tornare a riflettere
sulla sua opera targata ’23, al rientro dalle nostre rigeneranti vacanze estive.
A profusione i motivi, in questi tempi di guerra sempre più cruenti e di minacce atomiche sempre
più concrete. Ricattatrici verso un nemico di turno soltanto illusorio, poiché travalicanti ben oltre il
circoscritto – si fa per dire – teatro bellico, le conseguenze della loro messa in campo.
Tormentato dalle visioni di un mondo altro e pioniere negli studi sulla fisica quantistica,
immaginando un piano dell’esistenza con agglomerati molecolari che prendono vita in un mondo e
un tempo altri rispetto a quelli vissuti tutti i giorni, il mitico padre dell’atomica offre a Nolan
l’ennesima occasione di giocare con il tempo, cifra stilistica consolidata con successo nell’arco
della sua carriera (Memento, Inception, Interstellar).
Ellissi e flashback mirati, la grammatica filmica usata dal cineasta per contrarre e dilatare il tempo, al fine di sottolineare i punti chiave dello story telling ed esaltare la prospettiva da lui scelta.
Le migliori menti del momento riunite a Los Alamos, in una location ultrasegreta, con il brillante
professore a capo della squadra.
A ritmo serrato, frame dopo frame, nel film prendono vita tutti i protagonisti, Enrico Fermi
compreso, dell’epocale impresa scientifica, il progetto Manhattan, per renderci testimoni di una
corsa agli armamenti senza pari, premonitrice di un punto di non ritorno, oggi costantemente
minacciato dalle notizie sui media.
A est, un conflitto che dura da oltre tre anni, a sud, popoli e religioni storicamente antagoniste
sempre più refrattarie a quell’inclusività e fratellanza alla base di qualunque credo religioso.
Arrivare prima di Hitler alla costruzione del micidiale ordigno, la motivazione ufficiale all’epoca
della Seconda Guerra Mondiale, avvalorata dalla natura criminale del fuhrer, che avrebbe potuto
farne un uso maggiormente drammatico e apocalittico. I tedeschi, tuttavia, erano lontanissimi
dall’agognato risultato, si scoprirà poi. Oltre al fatto che, in caso di sgancio dell’atomica su
territorio germanico, l’operazione si sarebbe rivelata un nefasto autogol. Neppure gli Alleati si
sarebbero salvati dalle radiazioni e dallo sterminio provocati dalla detonazione.
Il regista accompagna lo spettatore su una giostra di inquadrature sfiancanti e vorticose,
espressione del nuovo ritmo del mondo che si preannunciava, anticipato dal tragico e noto evento
di ottant’anni fa. Eppure, sin dal Trinity test, i rischi erano alti e parimenti temuti dagli scienziati: a
causa di una reazione a catena, l’incendio dell’atmosfera avrebbe potuto condurre anche alla
distruzione in blocco del Pianeta. Niente scampo, dunque, non soltanto per l’area geografica
colpita ma per l’umanità intera.
Sono divenuto morte e distruttore dei mondi – il commento di Oppenheimer, l’indomani del test.
Personalità controversa non priva di lati oscuri, attaccato dai vertici USA per le sue simpatie
comuniste, in un periodo in cui erano piuttosto diffuse, a dire il vero. Per di più che a dichiararle
era un pacifista convinto, amante della condivisione.
Purtroppo, però, non è difficile innescare un corto circuito fra la vanità di un’intelligenza superiore
e l’amore per la ricerca. E il rischio è che i buoni propositi iniziali si ritrovino polverizzati e
disintegrati dai controversi ma grandiosi risultati ottenuti, non diversamente dai corpi evaporati
per l’impatto di Little boy e Fat man, le atomiche sganciate rispettivamente su Hiroshima il 6,
Nagasaki il 9, dell’agosto 1945. Una luce e il nulla, solo in una frazione di secondo.
La manipolazione militare malata di potere e lo sguardo freddo e sbrigativo del generale Groves-
Paul Newman, invece, sono i capisaldi di Fat Man and Little Boy-L’ombra di mille soli, il film di
Roland Joffè - Palma d’Oro a Cannes con Mission, tre anni prima – in sala con trentacinque anni di anticipo
sull’opera di Nolan.
Stridente la contrapposizione fra l’individualismo militare, egregiamente trasmesso dal mitico
Brick de La gatta sul tetto che scotta, e la solidarietà fra gli studiosi, spiati, sotto pressione,
prigionieri di regole non favorevoli allo sviluppo della loro creatività scientifica e di ricerca. Negati
persino intimità, privacy, emozioni.
Del resto, il punto di attrito è presto fatto e funeste saranno le conseguenze. Non sfugge al cinico
militare la relazione fra Oppenheimer e l’attivista comunista Jean Tatlock, che se ne serve senza
indugio per tenere in pugno lo scienziato.
La scalata al potere miete le sue vittime con effetti non diversi dall’arroganza di un ego
ingombrante, come può esserlo anche quello di un grande studioso. Oltre al fatto che uno
scienziato vorrebbe rispondere soltanto alla Dea Scienza. Pure i peccati di orgoglio, però, sono
chiamati a scendere a patti con la realtà e talvolta a sbatterci contro, come può succedere anche
all’utopia, che può anche rischiare di allontanarsi dai buoni propositi iniziali.
D’altronde, tuttavia, come provare a cambiare la Storia, a migliorare il mondo, senza un’ideale,
un’utopia a ispirarci e guidarci?! Ed ancora, quanto siamo disposti a sacrificare a un’idea,
soppesandola con il valore delle vite umane in gioco?
Fortunatamente, comunque, l’Uomo è guidato da una coscienza e metterla a tacere non riesce
proprio a tutti. Tutt’altro scenario le avide conseguenze degli studi di ricerca trasformati in arma,
di cui la Storia si è macchiata e servita per incutere terrore sugli altri e metterli in ginocchio al
proprio cospetto. Tant’è che molti storici, oggi, considerano quei due sganci terrificanti un crimine
di guerra, nonostante sia stato percepito per decenni come necessario.
A differenza di Nolan, della sua forma ricercata, dello spirito patriottico prodigato, Joffè
confeziona un’opera dal ritmo più lento, ridimensionata da una narrazione più lineare e chiusa in
una scrittura più descrittiva.
Netta la divisione fra i buoni e i cattivi, laddove in Nolan, Murphy interpreta, con talento e
mestiere, le variegate sfumature del conflitto interiore che attanaglia il professore. Degne di nota,
invece, in Joffè, le nuances interpretative di Laura Dern, che dà il volto a una giovane beffata dai
suoi stessi ideali; la vivacità di John Cusack nel ruolo più sfortunato; la freddezza granitica di
Newman nei panni del generale, dai contatti umani rarefatti e persino sessista contro la moglie di
Oppenheimer.
Nel complesso, una regia diligente che non decolla, nonostante qualche momento ben riuscito
come l’episodio dello scienziato Merriman/Cusack, consapevole di morire per le radiazioni,
raccontato nella sua lucida crudezza.
D’altra caratura l’occhio di Nolan. Il cineasta scruta il volto dell’amante di Oppenheimer,
struggente nelle sue pene d’amore e schiacciata dal peso dei suoi ideali. Si sofferma sullo sguardo
della moglie Kitty-Emily Blunt, consapevole dell’adulterio e ferita a morte nella sua femminilità,
che è disposta a ingoiare il rospo ma non a rinunciare alle luci della ribalta. Esemplare il modo in
cui protegge l’intimità della famiglia dall’invadenza pubblica e l’integrità del marito dagli strali di
chi vorrebbe distruggerlo.
Avvincente anche il racconto in flashback originato dal processo, dal quale si risale alla Storia, che trascina in aula pure lo spettatore, parimenti imputato davanti a una giuria inquirente asservita a pericolose posizione maccartiste.
Due prospettive a confronto.
Joffè traduce il pensiero del generale, tracotante e pacato, ambizioso e cinico, pronto a sacrificare
“qualche vittima” pur di condurre gli Stati Uniti sul cucuzzolo del mondo. E lo fa scegliendo di
raccontare il punto di vista di questi, didascalico e semplicistico; mentre Nolan sceglie l’ottica
della Scienza. Ci narra la Storia con gli occhi di Oppenheimer, guidandoci fra i chiaroscuri della sua indole, ma soprattutto circoscrive il focus al suo difficile conflitto interiore.
Due pellicole che stimolano una rivisitazione prospettica della Storia, un memento per diradare le
nubi dell’oblio belligerante sotto gli occhi di tutti, un reminder sostenitore di un cambio di
pensiero, di passo, auspicabilmente più saggio di quello seguito ottant’anni fa, quando s’insidiò un
sentimento nuovo: la consapevolezza della vulnerabilità umana nella sua globalità.
Il Cinema, letteratura non da meno delle altre forme più longeve, può certamente aiutare a far
luce. È, però, soltanto una possibilità, non una certezza. Se già aprisse a qualcosa in cui credere e
per cui valesse la pena spendersi, tuttavia, la nostra coscienza ringrazierebbe.
Certo è che da nord a sud, da est ad ovest, c’è bisogno di vie negoziali ancora più efficaci per
l’obiettivo pace. Papa Prevost lo rammenta continuamente, esortando a pregare, persino
digiunare per la pace, il 22 del mese scorso. Lo ha fatto anche appellandosi al milione di giovani
intervenuti da tutto il mondo per il giubileo loro dedicato e continua a richiamare sul tema tutti i
giorni.
L’obiettivo pace però, non va solo raggiunto. Bisogna che la pace sia disarmata e disarmante come chiede proprio Leone XIV e certamente che non sia un’utopia, una meta che si allontana.
Oggi, i tabu della guerra vengono sempre più sostituiti da istigazioni a sopraffare, pulsioni
autoritarie, da un indebolimento del sussulto del terrore. Un processo che dovrebbe far riflettere,
perché stiamo perdendo in sensibilità, in umanità. Ottant’anni fa, gli effetti dell’atomica
rappresentavano un pensiero eccedente la mente umana ma questa eccedenza è ancora attuale e
quei protagonisti mortali sono diventati oggi ordigni ben più potenti e tattici di allora. Eppure,
basterebbe si tornasse a quell’idea di pace perpetua, cosiddetta, che ci ha accompagnati per tre
generazioni, dopo la Seconda Guerra Mondiale, per scongiurare l’epilogo paventato e denunciato
nel film Il Pianeta delle scimmie, per esempio. Altra pellicola che gioverebbe rivedere.
Come dimenticare Charlton Heston, in lacrime e in ginocchio nel mare, che maledice gli uomini per
l’eternità per aver distrutto la Terra, casa nostra, con le scellerate esplosioni atomiche?
E nel frattempo che la malvagità autodistruttiva della nostra specie si plachi, con la coscienza che
si riappropri della sua centralità, le due massime superpotenze nucleari s’incontrano in Alaska. È
successo da poco. Per guardarsi a vista, studiarsi, pianificare di spartirsi la torta, proprio come è
accaduto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Stavolta addirittura fra pacche e tappeti rossi,
sognando persino il Nobel per la Pace.