Dal volume di Angelo Zito edito da Tempesta editore
con le illustrazioni di Diego Fioretti
L'Inferno di Dante
cantato ne la lingua de Roma
sintesi della postfazione scritta
dalla professoressa Penelope de Robertis
Quel “cantato nella lingua di Roma”, come recita la bellissima copertina, mi
invoglia a sfogliare le pagine e subito il “cantato” mi cattura.
Il verso elegante, graniticamente forgiato sulla struttura dantesca, racconta
dell’impegno a cercare le soluzioni verbali più adatte senza mai cadere in
una spiegazione banale. Il linguaggio, senza cadute nel gergale più ovvio,
nella ironia, nella sfrontata superiorità romana, si modella sui versi di
Dante, un e li avvicina al gusto di un lettore di questo secolo, anche se non
è romano e forse arriva più direttamente a chi non pratica questo dialetto,
ma lo apprezza ormai per la immediata simpatia che scaturisce spontanea
per merito di tante pellicole che lo hanno spesso usato.
Siamo convinti che sia questo il modo di rileggere oggi quello che Dante
inventò allora.
La prima immagine che mi ha colpito è quella di Caronte che traghetta le
anime e mi è sembrato di vederlo tra i flutti del Tevere sotto il ponte rotto
dell’isola tiberina.
Come non citare le parole di Francesca “amor che vôle amore da chi è
amato” che risolve tante dispute sull’interpretazione o quelle di Ulisse
“pure si sete nati da le grotte
nun dovete annà a caccia come bestie
ma in cerca de le stelle e der sapere”
Dante ha fatto spessissimo ricorso alle similitudini, una sorta di spiegazione ma anche di cedimento lirico tra i drammi infernali, ma il verso romano ha resistito alla prova. Mi piace ricordare dal canto XXVI:
Quante lucciole véde er contadino,
sdraiato a riposasse sopra er colle,
mentre guarda la tera cortivata
e la vigna che aspetta la vendemmia,
ne l’ora che er sole s’annisconne
e la mosca dà er posto a la zanzara,
artrettante fiamme dardeggianti
viddi risplenne ne l’ottava borgia,…
Le citazioni mi potrebbero prendere la mano mi piace concludere con quei versi che chiudono la cantica infernale e che Dante immortalò nel più volte citato “e quindi uscimmo a riveder le stelle”
Pe qquela strada buia e co li sassi
senza pensà nemmeno a riposacce,
ce incamminanno a ritrovà la luce;
lui pe pprimo salí, io j’annai appresso
e cominciai a vedé da ’na fessura
quanto era granne er cielo sopra a noi:
er firmamento ce brillò ne l’occhi.