Conoscere gli altri
La Nubia
Di Piero Pasini - Foto di Eric Lafforgue
La Nubia, regione del Sudan settentrionale, lontana dalle rotte del turismo, vanta siti archeologici unici, vestigia di straordinarie civiltà del passato, miracolosamente conservatesi tra le dune. Un paesaggio superbo in grado di trasformare qualsiasi viaggiatore in un moderno esploratore.
Prima delle sei del mattino esco dalla mia tenda nella frescura del deserto, nei pressi di Tombos. Mi inerpico su alcune rocce lisce e fredde, color della ruggine, mentre un timido chiarore indica l’est, e siedo in attesa. Il sole inizia a salire esattamente tra due creste rocciose, come in un mirino. Le ombre compaiono improvvise e lunghe, mentre si alza un vento prima leggero, poi teso, che non calerà per tutta la giornata. Complice il vento improvviso, tutto restituisce l’impressione di essere confinati su una sfera in mezzo all’universo. La linea dell’orizzonte è lontanissima, a queste latitudini l’alba riacquista un potere ancestrale, un evento eccezionale che si verifica tutti i giorni.
Ero atterrato a Khartoum di notte, in un aeroporto che sembrava di legno. Nel parcheggio dormivano decine di persone. O, meglio, facevano ciò che ho scoperto poi essere un’attività fondamentale in Sudan e che si svolge per lo più da distesi: sopportare il caldo. Erano autisti di taxi, pullman, fuoristrada e tuk-tuk. Quella notte Khartoum scorreva scura fuori dai finestrini di un pullmino. Avevo intuito solamente la presenza di un fiume. Avrei rivisto tutto meglio il giorno dopo, compresa la confluenza fra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, le cui acque non si mischiano per un lungo tratto ma scorrono affiancate, l’una chiara e l’altra scura, come in una danza di corteggiamento. In arabo la confluenza si chiama non a caso El Mugran, che significa anche “matrimonio”.
In mezzo al Nilo
Khartoum mi avrebbe stregato con le ubriacanti danze dervisce del venerdì sera e il grande suk di °°°Omdurman°°°, dove montagne sgargianti di spezie, oscuri corridoi impregnati dell’odore degli agnelli macellati, campionari di incomprensibili utensili e immacolati atelier di jellabiya stanno sotto lo sguardo rapido e curioso di scimmiette che saltano da un tetto all’altro.
Lasciai la capitale. Dovevo attraversare un deserto fatto di tanti deserti. Dune di sabbia finissima, distese di sassolini di alabastro giallo e rosa, foreste fossili color antracite, piste di biglie giganti di pietra nera, pianure di piccole rocce aguzze rosse. E savana in cui si stagliano acacie isolate con spine lunghe quattro centimetri e foglie minuscole, dove si incontrano nomadi che vivono dentro vesti di tela spessa e mungono i cammelli e attingono acqua ai pozzi con corde di pelle di vacca. In mezzo a tutto questo, il Nilo.
A pochi metri dalle sue rive ero entrato nel tempio di Soleb, a nord della terza cateratta. Ciò che resta di questo tempio egizio della XVIII dinastia è poco rispetto alla selva di colonne dell’antichità. Ciononostante si possono spendere ore al cospetto delle alte steli superstiti. Ma l’effetto wow è dato dal primo impatto con il sito. Dopo una traversata su una barca sgangherata, il tempio appare tra le fronde del palmeto che contorna il fiume, in splendido isolamento. Lì sono certo di aver provato le stesse emozioni che colpirono i primi esploratori dell’Ottocento.
La montagna sacra
E così ero arrivato all’alba di Tombos. All’epoca dei faraoni qui c’era il confine fra l’Egitto e la Nubia. Una stele ancora segna un check-point. A pochi passi c’è la statua di re Taharqa, distesa su un fianco, caduta in fase di trasporto e da 2.700 anni mai spostata. Da questo confine dovevo tornare lentamente verso sud per esplorare il regno dei Faraoni Neri che prima governarono l’intero Egitto e la Nubia dalle capitali di Napata e Meroe, nel cuore del deserto, e poi, con l’arrivo dei Tolomei e dei Romani più a nord, tennero in vita il potere dei faraoni quando il resto del mondo ormai stava cambiando.
Il primo incontro avviene poco dopo la partenza, nel museo di Kerma, dove le sette statue dei re sono state ricomposte dopo il ritrovamento avvenuto nel 2003. Risalgo un tratto di Nilo fino a Dongola, mangiando pesci sconosciuti fritti nel fumo di mercati millenari, fra clacson incessanti.
Questo sito archeologico raccoglie i resti di un’antica cittadella sulla sponda orientale. Fondata nel V secolo come fortezza, presto si sviluppò intorno un nucleo abitativo. Più tardi, con l’arrivo del cristianesimo, divenne la capitale del Regno di Makuria e vi furono costruite numerose chiese. I suggestivi resti di cattedrali e altre rovine lungo la sponda del fiume sono visibili ancor oggi. L’anno scorso, un team di archeologi polacchi ha scoperto i resti di un’imponente basilica: forse la più grande chiesa della Nubia medievale.
Necropoli imperiale
Terminata la visita a Dongola, proseguo per 240 chilometri di deserto e verso l’imbrunire ecco Karima, nei pressi di Jebel Barkal, la montagna sacra, l’Olimpo dei Nubiani, scuro e imponente nel deserto piatto sul far della sera. Secondo la tradizione egizia, sul monte sarebbe nato Amon, il dio del sole. Dopo tremila anni, il luogo continua a comunicare un senso di mistero e soggezione. Se non altro – me ne accorgerò il giorno dopo – per la presenza di un sole che ha la potenza di un dio sterminatore.
A lui è dedicato il tempio ai piedi del monte, di cui è possibile leggere la struttura, con la lunga rampa d’accesso come il celebre tempio egizio di Hatshepsut. Poco oltre, una delle necropoli di Napata, prima capitale del regno nubiano. Faccio l’incontro con le prime piramidi aguzze, che, tra i tanti enigmi che le circondano, sono prive di cartiglio regale, probabilmente quindi costruite e poi mai utilizzate. Sferzato da un vento che preannuncia una tempesta di sabbia, raggiungo la necropoli imperiale di Nuri, un’enorme distesa di grandi piramidi che visito in totale solitudine. Nonostante esse siano del periodo di Napata, risalenti cioè alla XXV dinastia (fra VIII e VII secolo a.C.), sono state costruite con metodi in uso nell’Antico Regno. Si può quindi parlare di questo sito come di un esempio di “Rinascimento egizio”. Quando dovettero affermare e rinforzare il proprio potere, i Faraoni Neri tornarono a costruire in forme classiche, allo stesso modo in cui Napoleone eresse edifici con le forme dei templi romani, per richiamare la grandezza dell’Impero.
L’ultimo sito attorno a Karima è El Kurru, dove scendo nelle viscere della terra per ammirare un cielo stellato. È dipinto sul soffitto di una tomba databile fra il 900 e il 650 a.C.: 250 anni di scarto, sì – le volte stellate sono un evergreen dell’arte e, in assenza di elementi certi, difficili da datare. Le loro stelle splendono nelle tombe faraoniche così come nelle volte delle chiese e dei palazzi europei.
Feste e piramidi
Karima mi concede anche un’immersione nel Sudan contemporaneo. La sera cedo al richiamo dei tamburi che suonano lontano. Nel centro della cittadina, in uno spazio recintato in muratura grande poco meno di un campo da calcio, molte persone avvolte dalla polvere intonano canti e balli in onore di Maometto, accompagnati da tamburi e strumenti a corda. Io sono l’unico kawaja, uomo bianco, e suscito una certa curiosità. Bambini mi guardano mordicchiando canne da zucchero lunghe un metro. Alcuni si avvicinano muti, altri più grandicelli cercano un contatto ridacchiando, zittiti rapidamente dagli adulti che intavolano vere e proprie discussioni in arabo, forse inviti a partecipare alle danze; le ragazze sono incuriosite dai miei capelli chiari, mi osservano e sorridono; le donne mi guardano curiose e composte. Al ritorno, una specie di corteo mi scorta fin quasi a casa.
Un’altra scorta, questa volta in groppa ad alti dromedari bianchi, mi accompagna qualche giorno dopo. Sono i cammellieri di Meroe, che mi seguono nella speranza che io chieda un passaggio, ma rispettano silenziosi il mio raccoglimento. Sono arrivato al sito che conta più piramidi al mondo, leggendaria destinazione di ogni appassionato di archeologia. Ancora una volta sono l’unico visitatore. Non so come descrivere l’emozione di Meroe, così come sono in difficoltà a parlare dei magnifici templi di Musawwarrat e Naqa, dove mi hanno accolto gli archeologi che vivono nel deserto per la sola gioia di accudire come cuccioli i giganteschi bassorilievi e i geroglifici di questi siti semplicemente sconvolgenti, unici. Ma è necessario abituarsi a sensazioni e riflessioni difficili da definire, in questo grande Paese.
In un luogo come Tombos, un deserto piatto, di sabbia compatta, disseminato di gigantesche pietre sferiche nere, enormi biglie cadute dalle mani del dio Sole, si è come astronauti al primo contatto con un pianeta sconosciuto. Così, saltellando fra le 43 piramidi di Meroe, ci si sente come gli scopritori di un mondo antico; e quando ci si mischia fra la gente si riconosce la propria curiosità negli occhi degli altri. Fra meraviglie assolute dell’archeologia, scenari naturali di incomparabile bellezza, gente che – se possibile – è più calda del torrido deserto, e alcuni fra i più bei tratti del Nilo, il Sudan regala anche qualcosa di veramente raro: emozioni mai provate prima.