#120 - 16 febbraio 2015
AAA ATTENZIONE - Questo numero rimarr in rete fino alla mezzanotte del 19 aprile, quando lascer il posto al numero 350. Ora MOTTI per TUTTI : - Finch ti morde un lupo, pazienza; quel che secca quando ti morde una pecora ( J.Joyce) - Lo sport l'unica cosa intelligente che possano fare gli imbecilli (M.Maccari) - L'amore ti fa fare cose pazze, io per esempio mi sono sposato (B.Sorrel) - Anche i giorni peggiori hanno il loro lato positivo: finiscono! (J.Mc Henry) - Un uomo intelligente a volte costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti (E.Hemingway) - Il giornalista colui che sa distinguere il vero dal falso e pubblica il falso (M. Twain) -
Ambiente

Al vaglio statistiche e considerazioni

Un impegno ambizioso

C02: modello Europa?

Dati sconfortanti - prospettive incerte

L’Europa contribuisce alla produzione totale di CO2 per l’11%, una quota destinata a ridursi per il prevedibile aumento delle quantità prodotte da altri Paesi che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto e, soprattutto, Paesi in via di sviluppo.
Si è posta inoltre, per la prossima decade, obiettivi molto ambiziosi, confidando di proporsi con ciò come il modello da seguire, in un politica di “leading by example”.
Si può tuttavia dubitare della bontà di tale politica e della sua efficacia, rispetto ad un più rude approccio “Coercing through interest”.
Nella lotta ai cambiamenti climatici causati dai gas a effetto serra (GHGs) prodotti dalle attività umane l’Unione Europea si è attribuita il ruolo di esempio per il resto del mondo (“leading by example”), ma vi sono motivi per dubitare che le sue azioni siano all’altezza di tale ambizioso proposito.
Queste ed altre riflessioni appaiono in un lungo saggio di Giovannangelo Montecchi Palazzi di recente pubblicato.

C02: modello Europa?C02: modello Europa?

Vero è che, andando oltre quanto previsto dal Protocollo di Kyoto, l’UE si è data obiettivi molto stringenti. Da ultimo, all’unanimità dei suoi Stati membri, si è impegnata a ridurre le emissioni di CO2 del 40% entro il 2030 rispetto al livello del 1990, a produrre almeno il 27% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili e a migliorare del 27% l’efficienza energetica. Sono indubbiamente obiettivi ambiziosi. Basti osservare che si tratta di duplicare in soli 10 anni ulteriori la riduzione di CO2 del 20% già prevista nell’arco del trentennio 1990 – 2020.

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Tuttavia tali lodevoli sforzi sono perseguiti mediante misure burocratiche complesse, sovente poco efficaci ed economicamente dannose, ma, soprattutto, prese in pressoché assoluto isolamento.
In merito è opportuno ricordare che l’UE produce 3,5 miliardi di tonnellate annue di CO2, l’11% del totale mondiale (circa 32 miliardi di tonnellate nel 2012, che diventano circa 50 miliardi di CO2 equivalente aggiungendo gli altri GHGs, CH4, NOx, HFCs), che importanti Paesi sviluppati non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto e che i PVS (Paesi in Via di Sviluppo) non sono ancora tenuti ad alcuna riduzione.

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Alla prossima COP21 ( 21esima Conference of Parties) che si terrà a Parigi a fine anno ci si attende che tutti i Paesi che hanno aderito alla UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) assumano impegni di riduzioni delle emissioni equi e quantificabili.
Purtroppo - dato il gran numero dei partecipanti, la complessità delle considerazioni tecniche e di giustizia distributiva tra Paesi sviluppati e PVS nonché, tra questi ultimi, la rigidità delle posizioni di alcuni tra i maggiori emettitori di GHGs come Cina, India e Brasile – è da prevedere un negoziato assai arduo ed è plausibile temere un esito deludente.

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In una visione necessariamente globale e non solo euro-centrica dei cambiamenti climatici è essenziale sottolineare la futura rilevanza assoluta dei PVS non solo per motivi tecnici, ma anche, e soprattutto, etici. Secondo l’OCSE su 194 Stati membri dell’ONU i PVS sono 150, rappresentano circa l’80% della popolazione mondiale ed hanno superato i Paesi sviluppati sia nel consumo di energia primaria (57% del totale mondiale nel 2011) che nella produzione di GHGs e di emissioni nocive alla salute umana.
E il divario con i Paesi sviluppati non farà che aumentare.
Infatti, mentre in questi ultimi i consumi energetici e le conseguenti emissioni rimarranno pressoché stabili, nei PVS sono destinate a crescere per motivi demografici (i prossimi 2 miliardi di nuovi abitanti del pianeta risiederanno quasi esclusivamente nei PVS), per l’intensità energetica di partenza bassa o bassissima che aumenterà fatalmente in parallelo coi redditi nazionali e per l’urbanizzazione. Secondo la IEA (International Energy Agency) nei prossimi 25 anni la domanda di energia dei PVS crescerà del 37%. L’OCSE prevede, invece, una crescita del 2,2% l’anno che, se confermata, comporterebbe un aumento del 72% nello stesso arco di tempo.

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Ma per ben comprendere le variegate posizioni dei PVS ed i problemi di equità distributiva che sollevano non basta sottolineare l’ovvio: che l’energia è essenziale per lo sviluppo economico e, quindi, per ogni sviluppo sociale sostenibile.
E’ necessario almeno accennare agli aspetti etici.
In proposito basti ricordare che circa 1,2 miliardi di esseri umani non hanno ancora accesso all’elettricità e altri 2,5 miliardi sono “sotto-elettrificati”. In altre parole metà della popolazione mondiale è priva o parzialmente priva di diritti umani fondamentali. Senza elettricità non solo non c’è progresso economico, vi sono anche difficoltà di istruzione, di informazione, di tutela della salute, di diritti delle donne. A ciò vanno aggiunti i costi, stimati in US$ 23 miliardi l’anno, per l’acquisto di kerosene e gli incidenti e le malattie prodotte da fumi, causa in Africa di 600.000 morti premature l’anno.

Gli argomenti correlati al problema delle emissioni sono numerosi e variegati, perciò nei prossimi numeri del giornale proveremo ad ampliare il discorso ora avviato.

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