Le frazioni attraversate dal Sentiero Corradino in cui sono presenti le tabelle con annessa la storia
di Corradino tratte dal libro “Il Borgo di Corradino nel III Millennio”: Sante Marie – Castelvecchio –
San Giovanni – Santo Stefano – Scanzano – Tubione – Val de’ Varri
In questa sezione è stato raccolto tutto il materiale, testi ed immagini, presente nelle bacheche dei
paesi che si trovano lungo il Sentiero Corradino: idea-progetto della professoressa Laura Micalizio
Lungo il Sentiero Corradino
Sosta, o viandante, tra questi boschi che protessero, la fuga del giovane Corradino di Svevia.
Essi udirono il serrato galoppo del suo cavallo, lessero lo sgomento nei suoi occhi, tremarono alle concitate grida che disperavano ormai della salvezza.
“…Corradino et il duca d’Austria meschini giovani
accompagnati da Galvano Lancia e Galeotto suo figliolo,
et uno scudiero, vestiti in abiti di asinari, avendo
errato per tre dì per li boschi…” (Pandolfo Collenuccio)
Fuggendo provava il Disonore della sconfitta, l’Amarezza della solitudine, la Nostalgia della sua terra sveva e, pur lontano, sentiva il pianto della madre che, sola, fino all’ultimo lo aveva distolto da quella impresa troppo ardua per la sua giovane età.
“… sul Reno natio era un castello, e sul freddo verone era una madre, che lacrimava nell’attesa amara…”
Era la sera del 23 agosto 1268.
Il principe svevo, fuggendo, si lasciava alle spalle i Piani Palentini, dove si era combattuta nel corso della giornata una cruenta battaglia che la storia ricorda come “La battaglia di Tagliacozzo”, così violenta da arrossare, si dice, del sangue dei morti le acque del fiume Imele che tali campi attraversava.
Lo stesso Carlo D’Angiò al termine della battaglia scrisse:
” Fu fatta sì grande strage di nemici che quella avvenuta nel campo di Benevento, in confronto della odierna può ritenersi molto modesta”*.
Infatti proprio nella pianura che si estende tra gli attuali comuni di Magliano dei Marsi e di Scurcola Marsicana l’esercito angioino aveva sterminato e sconfitto l’esercito svevo di Corradino che in seguito a tale disfatta vide dileguarsi per sempre ogni speranza di riappropriarsi, quale legittimo erede degli svevi, del Regno di Sicilia.
La fortuna gli era stata avversa e l’astuzia del vecchio Aleard de Valery lo aveva destinato a perdere il regno a
Tagliacozzo e la vita a Napoli sul patibolo.
Così i famosi versi di Dante:
- “… e là da Tagliacozzo
ove senz’arme vinse il vecchio Alardo”.*
Corradino, duca di Svevia e ultimo degli Hohenstaufen, nipote di Federico II, figlio di Corrado IV e di Elisabetta di Baviera era, deceduti o prigionieri gli altri discendenti di Federico II, l’ultimo erede del regno di Sicilia, di cui ormai era Re Carlo D’Angiò ricevutane l’investitura dal Papa Clemente IV.
L'impresa di Corradino per la riconquista dell’avito Regno fu fortemente voluta da uomini e città di parte ghibellina desiderosi di liberare l’Italia dal pesante gioco guelfo che si era esteso su quasi tutta la penisola in seguito alla vittoria di Carlo D’Angiò su Manfredi.
“Ambasciatori delle città imperiali di Pisa, Verona, Siena, Lucera, Palermo ed altre e personalità ghibelline, tra le quali i marchesi Galvano e Gaetano Lancia, i fratelli Corrado e Marino Capace di Napoli giunsero a lui dall’Italia, gli offrirono doni, lo salutarono Re di Napoli e Imperatore e lo sollecitarono alla riconquista del Regno avito promettendogli collaborazione ed aiuti”. (Corradino di Svevia. Loreto Severino)
Al loro invito si aggiunse anche quello di Arrigo di Castiglia, senatore di Roma e giovane ardimentoso. Egli aveva così in odio Carlo D’Angiò da soler dire:
“Per lo cor di Dio o el mi matrà o io il matrò”.
(Giovanni Villani)
La volontà di riscattare la terra degli avi, l’orgoglio di misurarsi in armi con chi aveva osato sfidare le sveve virtù belliche; il desiderio di potere e la consapevolezza di dover tenere alto l’onore degli Hohenstaufen lo avevano spinto a lasciare le tranquille cacce col falcone nella natia Svevia per avventurarsi in una ardua impresa bellica e capire anzitempo quanto il cuore dell’uomo è mutevole per avidità e pronto al tradimento.
“Ermo, bruno, sinistro evvi un castello,
Ivi pare di sangue in colorata
L’onda che sempre ne corrode il fondo,
poi che una sera sul perfido ponte,
a consumare un’opera di sangue,
in sembianza di blando ospite stette
il tradimento.
Vuoi saperne il nome?
E’ il castello di Astura
(Aleardo Aleardi)
Ecco cosa dice di lui lo storico moderno Felice Cianani:
“Il giovane nel quale i ghibellini riponevano tutte le loro speranze aveva appena superato l’età della fanciullezza e compiuto il quindicesimo anno: alla leggiadria della persona, dote di tutta al sua stirpe, e specialmente cospicua per alta statura e chioma bionda profusa, Corradino aggiungeva ingegno pronto, elevato sentire, costumi liberali e gentili. Le crudeli vicende che egli aveva viste attraversare dalla sua casa avevano formato il suo carattere e conferito alla sua mente una perspicacia ed un giudizio di molto superiore ai suoi anni”. (Storia politica d’Italia)
Il Gregorovius:
“Era venuto crescendo nelle terre bavaresi nutrendo il suo spirito dei canti del suo paese e di immagini seducenti di eroismi, di opere grandi e della caduta della sua casa”.
*."..Un giovinetto
pallido e bello, con la chioma d’oro,
con la pupilla del color del mare…"
(Aleardo Aleardi)
Era la fine di settembre d el 1267 quando il giovane Corradino si mosse con un forte esercito verso l’Italia.
Attraversando il Tirolo da Bolzano il 4 ottobre inviò al podestà e al popolo di **Pavia***, città ghibellina fedelissima, una lettera in cui si diceva pronto a combattere Carlo D’Angiò per riavere il Regno di Sicilia, terra dei suoi avi. Era convinto di sconfiggerlo.
“Non dubitiamo di abbatterlo in modo tale da non consentirgli mai più di risollevarsi”.
Era convinto di restituire la Pace a tutta l’Italia.
Per tutta l’Itali faremo pace e concordia generale”.*
Raggiunta Verona vi sostò tre mesi raccogliendo sotto le sue insegne tutti i ghibellini di gran parte d’Italia.
Da Verona raggiunse Pavia mentre il Papa Clemente IV tentava invano di opporsi allo sviluppo dell’impresa e di arrestarne l’avanzata.
Chiamava Carlo D’Angiò “carissimo in Cristo filio” mentre scomunicava Arrigo di Castiglia, dichiarava Corradino decaduto da tutti i titoli, onori e dignità e ricolmava di benedizioni e indulgenze tutti quelli che prendevano le armi contro Corradino in difesa della Chiesa.
Corradino per questa era il discendente degenere di quei “superbi imperatori” che avevano tentato di sottrarre il potere civile a quello religioso.
Lo svevo intanto si spostava da Pavia a Pisa ove il 7 aprile fu acclamato solennemente e festosamente.
A Pisa lo raggiunse la scomunica di Clemente IV che lo definì “piccolo sorcio di dannata stirpe e figlio della perdizione”.
Ma la scomunica non scosse il giovanissimo guerriero, la cui stirpe si era abituata agli anatemi spirituali come ad una “dotazione ereditaria”
“… ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei”.
Il 24 luglio da Ponte S. Angelo Corradino entrava a Roma.
Fu ricevuto in Campidoglio come in trionfo da Arrigo di Castiglia, da molti nobili e dal popolo esultante. Qui fu acclamato Re ed Imperatore.
“La sua bravura, la dolcezza dei modi e la sua bontà d’animo, tutte insomma le sue buone qualità accrebbero intorno a lui il favore popolare”. (Corradino di Svevia. Loreto Severino).
Tutto procedeva sotto i migliori auspici.
Nelle principali città d’Italia e della Sicilia sventolava la bandiera ghibellina.
Era il 14 agosto quando con il suo esercito partiva alla volta dell’Abruzzo. Pensava di entrare nel Regno di Napoli passando per Sulmona, da qui raggiungere Lucera, fedelissima agli Svevi, per poi affrontare Carlo D’Angiò in battaglia.
Era accompagnato da autorevoli personalità politiche e militari: il fedelissimo Federico, duca d’Austria, il senatore Enrico di Castiglia, il conte Galvano Lancia e Corrado d’Antiochia che già conte di Alba e di Celano e quindi buon conoscitore di questi luoghi deve aver avuto un peso determinante sulla decisione di abbandonare a Carsoli la via Valeria, dove si temevano agguati, per inoltrarsi nei sentieri boscosi della valle di Luppa.
Il confine dei Marsi albesi dagli Equi infatti passava nei pressi del paese di Santo Stefano come dal ceppo con l’iscrizione “Albensium fines” rinvenuto in località “le Colonnelle” in Val dei Varri.
“Ecce Rex noster cito veniet”
“Ecco che il nostro Re sta per giungere”.
(Dalle lettere incitanti alla sollevazione)
Inoltratosi nella valle di Luppa, l’esercito di Corradino passò per il territorio di Pietrasecca, volse quindi verso Castelvecchio e risalendo il monte Faito nei pressi di Santo Stefano di Sante Marie scese a Torano presso il fiume Salto nel Cicolano da dove proseguì per i Campi Palentini.
Qui il 22 agosto pose l’accampamento nella pianura presso Scurcola mentre Carlo D’Angiò si accampò nella zona collinare a sud-ovest di Alba, da dove poteva osservare l’esercito di Corradino alla distanza di due miglia.
La battaglia ebbe inizio la mattina del 23 agosto.
L’esercito di Carlo era di circa 4000 soldati, quello di Corradino poco più di 5000.
L’astuzia del Re francese fu quella di ingegnarsi per trovare quell’espediente atto ad equilibrare la situazione. Quello vincente glielo suggerì Aleard: l’imboscata.
Infatti ai tre squadroni dell’esercito di Corradino Aleard ne contrappose solo due, tenendo nascosto il terzo dietro la collina di Alba.
Quando le sorti della battaglia volgevano a favore degli Svevi e le truppe francesi erano allo sbando, ottocento scelti cavalieri angioini piombavano sull’esercito nemico che sicuro ormai della conseguita vittoria ma anche stanchi per la lunga battaglia non costituivano più un esercito ordinato e compatto. Fu una riserva efficiente che tramutò la vittoria degli Svevi in disonorevole disfatta.
Meritatamente Carlo D’Angiò potè così concludere la lettera inviata al Papa, scritta la sera stessa del 23 agosto:
“.. Si allieti la Chiesa nostra madre e lodi il Signore che le concesse sì grande trionfo col braccio del suo campione e sorga sicura giacchè sembra che l’Onnipotente abbia posto fine alle sue vessazioni e la abbia liberata dalle fauci dei suoi persecutori”.
Corradino e i suoi più fidati cavalieri riparavano, fuggendo, tra i boschi a ridosso di Scurcola ripercorrendo in parte a ritroso lo stesso percorso fatto per venire ai Piani Palentini.
Con gli abiti fradici, le membra stanche, ammutoliti e con il morale a pezzi arrancavano per l’erte salite e la boscaglia che rendeva difficile il loro procedere. Ma nel fitto di questi boschi di castagneti e querceti, disseminati qua e là di eremi e monasteri nonché di poveri casolari abitati da pastori, Corradino riusciva a trovare il sentiero più giusto per sfuggire all’inseguimento dei soldati nemici, abituato alle fitte abetaie della sua Baviera.
Forse più di una volta da qualche altura si volse a riguardare la pianura palentina ove si era infranto l’atavico sogno di una Italia unita e in pace e si era concluso tragicamente il destino degli Svevi.
Si rivedeva nel turbinio della battaglia, risentiva il cozzare violento delle armi, le grida di incitamento, il lamento dei feriti.
Commiserava la sua sorte e quella del caro e fedele cugino Federico quasi presagendo la comune tragica fine.
Di essi però resta la memoria dolorosa e cara tenuta viva dall’epigrafe apposta sulla loro tomba nella Chiesa del Carmine a Napoli
- ” ……Corradino di Svevia e Federico d’Austria
Di pari animo, pari età e pari fortuna
I quali vinti nella stessa vittoria
Trovarono invece delle palme il pianto
In luogo del trofeo la fuga ……………………………………………………… Ambedue condannati per un unico ordine di Carlo D’Angiò
Conseguirono il ferale palco invece del trono trionfale
La scure invece dello scettro
E qui il sepolcro invece dell’aula regale”.*
Costeggiando gli attuali paesi posti alle falde meridionali della catena montuosa cui sovrasta la cima del monte Faito : Sorbo, San Donato, Gallo, Scanzano, Santo Stefano, Corradino giunse a Castelvecchio. Dagli annali Piacentini- Ghibellini (pag. 528) leggiamo:
“Il Re Corradino con i soldati che erano con lui si rifugiò a Castrum Vegium”, cioè l’attuale Castelvecchio, frazione del comune di Sante Marie e facilmente raggiungibile dai Piani Palentini, che un’antica Bolla papale (1188) e i Regesti Angioini degli anni 1292-1293 chiamano Castrum Vetus e Castellum Vetus come il Castrum Vegium degli Annali Piacentini.
Qui, benevolmente accolto, pernottò nel locale castello ed ebbe modo di analizzare con i suoi più fedeli le cause della sua disfatta.
Il giovane principe non si rassegnava all’idea che un’impresa che aveva assunto un’importanza nazionale e che era cominciata sotto i migliori auspici si fosse così miseramente conclusa.
Non riusciva a capire se per la sua inesperienza, per la strategia troppo semplicistica dei capi militari o per la scarsa compattezza dei suoi soldati.
Forse proprio a Castelvecchio si pensò di riorganizzare, una volta a Roma, un nuovo esercito in grado di riaffrontare Carlo D’Angiò.
Gli avvenimenti però precipitarono. Corradino raggiunse Roma il 28 agosto. In questa città che pochi giorni prima lo aveva accolto festosamente, le condizioni politiche erano mutate per il risorgere della fazione guelfa. Guido da Montefeltro, vicario del senatore Enrico di Castiglia, si rifiutò di accogliere e proteggere i fuggiaschi e gli stessi ghibellini li consigliarono di abbandonare la città al più presto.
Partirono da Roma il 31 agosto per raggiungere il mare e mettersi in salvo sulla flotta pisana. Il tradimento di Giovanni Frangipane arrestò la loro fuga e forse deviò il corso della storia, consegnandoli al nemico e alla morte.
Corradino fu decapitato nella piazza del Mercato di Napoli il 29 ottobre 1268. Sulla colonna fatta erigere sulla sua sepoltura Carlo volle questa epigrafe:
“Il leone ghermito con gli artigli da astore l’aquilotto
Qui lo spiumò e recisogli il capo lo depose”.