#219 - 26 maggio 2018
Alla fine dei conti
Parte seconda
di Ruggero Scarponi
- Dovete scusarmi signori – esordì sforzandosi di scandire le parole che a ogni respiro sembravano spegnersi in un sussurro, simile a un sibilo. - mi rincresce molto di avervi fatto chiamare.
So che al teatro, stasera, danno una buona commedia, se non fosse stato importante, non mi sarei arrischiato a compromettere la vostra uscita.
Al mio tentativo di schermirmi si oppose risoluto e sollevandosi a stento sui cuscini ordinò al cognato in piedi vicino al divano:
- la busta, Valerio.
Questi prese lesto da un’étagère addossata alla parete un involucro e glielo porse.
- Dottore non me ne voglia – mi disse - ma me ne faccio un dovere, di rendervi almeno i biglietti che vi ho fatto sprecare inutilmente.
La busta conteneva due biglietti nella prima fila di platea per lo spettacolo in programma l’indomani.
- Ma che fa – protestai – vuole scherzare?
- La prego – rispose – sono troppo debole per controbattere – ci tengo – aggiunse porgendomi la busta con la mano tremante.
Guardai Alba. Non accettare mi sarebbe sembrato sconveniente un inutile orgoglioso rifiuto che avrebbe amareggiato ulteriormente l’uomo sofferente.
Presi i biglietti e balbettai:
- Non doveva maestro, davvero…
- Bene, bravo, lei mi capisce. – disse, contento che avessimo accettato - Mi ha tolto un peso. – aggiunse - Ora posso dire. Di certo sarà curioso di sapere perché ho chiesto di lei.
- Non nego… – cominciai senza completare la frase.
Lui iniziò a parlare.
E la prese da lontano. Parlò di teatro. Mi chiese cosa pensassi di registi e Autori emergenti.
Si mostrò colpito da certe mie idee riguardo alla scenografia.
Ero meravigliato o meglio, lusingato che “un mostro sacro†come lui potesse interessarsi alle mie opinioni.
Certo ne ero affascinato, tuttavia, mi riusciva difficile credere che quello fosse il vero motivo della convocazione. Debbo dire che conversammo a lungo.
I nostri discorsi, spesso di natura tecnica, il tono della voce di lui, stanco, sommesso e a tratti ansimante, la luce fioca e l’intero ambiente, ovattato, con pesanti tappeti sul pavimento e gli spessi tendaggi alle finestre, ebbero ragione della resistenza di mia moglie che a un certo punto nel mezzo di una complessa analisi drammaturgica in cui c’eravamo impegnati, reclinò la testa sulla mia spalla, vinta da un colpo di sonno.
Restai da solo ad ascoltare l’incredibile storia che l’attore si accingeva a raccontare.
- Vede – disse bisbigliando, quasi mi confidasse un segreto – che io mi ricordo di lei, di quando tanti anni fa scriveva commedie e drammi di discreta fattura e che avrebbe fatto bene a coltivare nonostante qualche ingenuità giovanile.
- E’ quello che ho intenzione di fare adesso – risposi – ora che sono in pensione vorrei dedicarmi interamente al teatro.
- Non è questo, però, il motivo per cui mi sono permesso di disturbarla, mio gentile amico.
L’uomo faticava a parlare e io con gli occhi, rivolsi uno sguardo interrogativo a suo cognato il quale mi rispose con un’espressione di impotenza visto che Raimondi era intenzionato a continuare il racconto.
- Circa vent’anni fa, caro Lanfranchi – riprese a parlare l’attore – lei frequentava un circolo di appassionati filodrammatici riunito intorno al compianto Lercari, l’unico critico per il quale io abbia mai avuto della considerazione.
No, non mi chieda come faccio a saperlo. Lo so, ma per altro motivo, direi trasversale.
E fu proprio il Lercari al quale lei aveva dato da leggere una cosa, che a sua insaputa, mi passò il testo per una valutazione in via confidenziale.
A quei tempi era d’uso scambiarsi di questi favori.
La fredda luce dell’alba si intitolava.
Caro Lanfranchi, non se ne meravigli, ho un buon motivo per ricordarlo.
Intanto il testo lo giudicai modesto, passabile seppure…per una rappresentazione da compagnia di provincia.
- E che cosa, colpì la sua attenzione? – domandai un po’ risentito per la critica che giudicai sbrigativa ma anche, sotto, sotto, incuriosito di cosa avesse mosso l’interesse del grande attore.
- No Lanfranchi, non mi fraintenda, il mio giudizio fu tutt’altro che negativo, piuttosto buono, anzi, direi. Non capita sovente di dare un apprezzamento anche modesto alla prima prova di uno scrittore esordiente.
- Veramente non era la prima – provai a ribattere.
- La prima Lanfranchi, la prima. Le altre sue cose, che aveva scritte e che mi premurai di leggere erano niente in confronto. Quasi esercitazioni scolastiche.
Quella invece possedeva un contenuto drammatico autentico.
Sì, d’accordo, si sarebbe potuto lavorare un po’ di più sulla forma, sui dialoghi e se mi consente sulla scenografia per la quale le indicazioni del testo, a mio modesto avviso, erano del tutto insufficienti.
- Sì sulla scenografia è vero - confermai - Le annotazioni erano carenti.
D’altronde ero giovane e inesperto.
- Appunto, come stavo dicendo. Inesperto, ma non insensibile.
Smussando qualche rozzezza s’intuiva il tentativo di cogliere negli aspetti essenziali della storia che aveva messo in scena, le dinamiche ricorrenti che muovono le passioni degli uomini e che ritornano sempre uguali durante i secoli, sia nella vita reale sia nel teatro.
Inutile dire che mi lusingava sentire come il grande attore si fosse interessato a una mia opera.
E tuttavia me ne restava oscuro il motivo.
Alba appoggiata alla mia spalla continuava a dormire placidamente e io non cercai neanche di svegliarla. Provavo un intimo piacere a sentirmela così addossata.
Però mi resi conto che il mio interlocutore aveva smesso di parlare. Da qualche minuto.
Si sentiva solo il suo respiro grosso, forzato, quasi un rantolo.
La chiacchierata doveva averlo affaticato.
Allora decisi di rompere gli indugi e dissi:
- Ma lei sta male. Non crede che sarebbe opportuna la visita di un medico?
L’uomo si limitò a un diniego deciso espresso con un movimento della mano e poi rispose asciugandosi con un fazzoletto il sudore che gli colava dalla fronte e dalle guance esangui.
- No. – disse dopo una lunga pausa meditata – no. Ma è giusto che venga finalmente al punto sul perché l’ho fatta chiamare qui.
È’ qualcosa che ha a che fare con il suo dramma.
Restai sinceramente sorpreso. Com’era possibile che una cosa scritta vent’anni prima e che dopotutto era stata rappresentata in un modesto teatro di periferia per quattro, forse cinque repliche, potesse aver interferito nella vita del grande Raimondi? Ora ero veramente ansioso di sapere.
- Mi deve togliere una curiosità – disse cercando con i suoi occhi spenti il mio sguardo.
- Se posso – risposi – tutto ciò che desidera.
- Allora mi dica, ma sia sincero la prego, vede in che stato mi trovo…mi dica, a lei quella storia chi gliel’ha raccontata?
- Benché siano passati tanti anni – risposi con sicurezza – non ho nessuna difficoltà nel dirle che fu proprio il Lercari, da lei, Maestro, citato poc’anzi, a raccontarmi la singolare storia dei due fratelli da cui poi trassi la pièce.
Anzi, mi applicai al lavoro proprio per la promessa fattami dal critico, e non più mantenuta per qualche difficoltà sopraggiunta, di una recensione nella pagina domenicale del Corriere.
Un lancio nel quale giurava di credere.
- Infatti, infatti – aggiunse Raimondi, stremato. - Come pensavo.
Non l’ho mai capito Lercari, per questo.
Deliberatamente la incaricò di scrivere un lavoro ispirato a una storia che mi riguardava personalmente e che io stesso, credendolo amico, gli avevo confidato.
Dopo queste parole mi sembrò che si accasciasse ancor più tra i cuscini del divano.
Restò muto per diversi minuti e s’intuiva che doveva seguire con la mente certi suoi pensieri.
Alba continuava a dormire serena e io ero sempre più ansioso di ascoltare.
- Le preparo un caffè? – domandò Palombi durante quella pausa nel silenzio profondo della stanza, rotto solo dal respiro regolare di Alba e dal rantolo gorgogliante di Raimondi.
Accettai volentieri.
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