#164 - 29 agosto 2016
AAAAAATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarrà in rete fino alla mezzanotte di martedi 31 dicembre quando lascerà il posto al n° 359 - mercoledi 1° dicembre 2025 - CORDIALI AUGURI DI BUON ANNO e BUONA LETTURA - ORA PER TUTTI un po' di HUMOUR - E' da ubriachi che si affrontano le migliori conversazioni - Una mente come la tua à affascinante per il mio lavoro - sei psicologo? - No architetto, mi affascinano gli spazi vuoti. - Il mio carrozziere ha detto che fate bene ad usare WathsApp mentre guidate - Recenti studi hanno dimostrato che le donne che ingrassano vivono più a lungo degli uomini che glielo fanno notare - al principio era il nulla...poi qualcosa è andato storto - una volta ero gentile con tutti, poi sono guarito.
Racconto

La festa in onore del Dio Incerto

di Ruggero Scarponi

Qualche tempo fa un mio carissimo amico intento agli studi storici volle mostrarmi un documento davvero singolare. Era un frammento di una lettera, scritta presumibilmente intorno alla metà del ‘800, da un uomo, un italiano, forse toscano, imbarcato su una nave inglese per motivi di studio e rinvenuta all’interno di una cartella di documenti datata aprile 1856, in Firenze e depositata presso uno degli archivi cittadini. Ciò che aveva attirato la curiosità del mio amico, era che si dava conto in quelle paginette, piuttosto malridotte, di un avvenimento di cui non si avevano altre fonti d’informazione: la descrizione di una festa, presso una popolazione oggi dispersa, in onore di un Dio di una religione sconosciuta alla storiografia ufficiale. Dopo molte ricerche il mio amico mi confidò di aver individuato il mittente della misteriosa lettera, doveva trattarsi di tale Cosimo Signorelli da Pisa, botanico, naturalista, di cui si sa che fu a bordo dello Arrow in viaggio da Livorno a Santiago del Cile, dal maggio del 1853 alla primavera del 1854. Si sa che il brigantino su cui era imbarcato navigò lungo tutta la linea costiera del continente sudamericano fino a che non fece naufragio nel tentativo di doppiare Capo Horn. Il povero Cosimo si salvò a stento dal disastro e impiegò ben due anni a far ritorno in patria. E tuttavia di tutta quella straordinaria avventura sembra abbia serbato in particolare, tanto ne fu colpito, il ricordo della festa a cui aveva avuto occasione di partecipare presso una popolazione indigena nella zona compresa tra l’odierna S e Rio G, sulla costa sud orientale nel versante argentino.

  • Carissimo Antonio – diceva nello stralcio della lettera in possesso del mio amico storico – per quanto scoraggiato e provato da mille fatiche dopo il disgraziatissimo naufragio, non potei fare a meno di rendere grazie, come prima cosa, alla Vergine Santissima, essendomi messo al principiare del viaggio sotto la sua dolcissima protezione. Tutto mi era ignoto da quelle parti e non nego di aver provato un vero sentimento d’angoscia sentendomi solo in mezzo alla natura selvaggia, lontano dalla mia civiltà e senza mezzi di locomozione che non fossero i miei poveri piedi. Ero approdato mezzo morto su un tratto di costa battuto dalle furiose onde oceaniche senza nessuna speranza di sopravvivenza. Senza carte topografiche ero condannato a muovermi alla ventura in mezzo a lande gelide e deserte. Allora, preso dallo sconforto, come ultima risorsa, decisi di ritirarmi a pregare in qualche luogo nascosto. Mi misi alla ricerca di una grotta in cui potermi riparare, almeno un po’, dal vento gelido. Il territorio circostante era brullo, solo in lontananza tra brume e densi vapori nebbiosi si scorgevano salire verso il cielo plumbeo le cime di alcuni alberi, forse dei pini di un bosco pedemontano. Più vicino, dei grandi massi arrotondati trasportati sin lì da qualche antico ghiacciaio di cui restavano avanzi negli avvallamenti della pianura, mi suggerivano l’idea di trovarvi un rifugio. Mi diressi da quella parte con decisione. Cominciai ad aggirarmi in mezzo alle rocce millenarie come un animale selvatico. Battevo i denti per il freddo e avevo le mani intorpidite.
    Finalmente trovai quanto stavo cercando. Alcune rocce, a causa della corrente glaciale che le aveva sospinte contro una piattaforma granitica, si erano sovrapposte formando una specie di recesso o grotta che comunque in quel frangente rappresentava il miglior riparo cui potessi aspirare. Mi accoccolai all’interno. Sembrava asciutto e il passaggio dalla sferza del vento alla quiete della grotta mi diede un senso di conforto e insieme di speranza.
    M’inginocchiai e mi raccolsi per recitare le abituali orazioni.
    Pregavo e piangevo, avendo compassione di me stesso e contemporaneamente di mia madre, di mio padre, dei miei fratelli e dei mie cari amici, tutti, che in Pisa senza alcun sospetto di quanto mi era capitato aspettavano fiduciosi il mio ritorno. Ora avvenne che vinto dall’angoscia e quasi stremato dalla preghiera cui mi ero abbandonato con foga cedessi al sonno. Devo aver dormito molte ore perché mi risvegliai a notte fonda. Ma quale fu la mia sorpresa, appena sollevato dal giaciglio, nel trovarmi di fronte un uomo. Sulle prime fui colto dallo spavento e mi ritrassi contro la parete della grotta temendo che volesse farmi del male. In realtà lo sconosciuto che riconobbi per un indigeno mi sorrise dolcemente e lasciandomi sbalordito, iniziò a parlare.
    Si esprimeva in una sorta d’inglese molto approssimativo, mescolato con parole e suoni della sua lingua. Inizialmente faticai non poco nel tentativo di comprenderlo, conoscevo bene l’inglese ma di questa lingua vi si potevano rintracciare solo vaghi accenni di parole smozzicate. Tuttavia mosso dal desiderio di comunicare con un essere umano mi sforzai e dopo alcuni tentativi cominciai a decifrare lo strano linguaggio.
    L’uomo, per prima cosa, chiarì il mistero della sua conoscenza della lingua europea.
  • Molti e molti anni fa – mi fece capire più a cenni che con parole – quando ero ancora fanciullo, fui preso a bordo di una nave dalle grandi vele.
    Non mi ci volle molto per indovinare che doveva trattarsi del Beagle, la nave su cui trent’anni prima aveva fatto lo stesso viaggio, ben più fortunato a giudicare dai fatti, il noto naturalista inglese Charles Darwin.
  • Quegli strani uomini bianchi pieni di peli – continuò a raccontare soffermandosi frequentemente alla ricerca di parole che non aveva avuto più modo di utilizzare da molti anni - mi tennero con loro per diversi mesi. Così ne appresi la lingua. Divenni il servitore di uno che custodiva, in una parte della nave, una grande quantità di piante, molte specie di animali e uccelli in piccole gabbie. Era gentile e non rideva come facevano gli altri quando a causa del cibo che era servito a bordo, per me inconsueto, lasciavo partire dei terribili peti.
  • Ricordi il nome di quell’uomo gentile? - domandai
  • Darwin. Mr Darwin – rispose con sicurezza.
    L’improvvisa e imprevista rivelazione ebbe il potere di scacciare per un momento, dal mio animo, tutte le ansie e tutte le paure. Trovarmi a tu per tu con un uomo che aveva vissuto vicino e anzi, ne era stato il servitore privato, di uno dei miei miti di scienziato naturalista, mi colmò di una gioia e di un desiderio di conoscenza che faticavo a contenere entro un dignitoso decoro. Avrei voluto tempestare di domande il mio nuovo amico. Naturalmente ero a conoscenza dei fatti. Sapevo da alcuni scritti che circolavano in Europa, del viaggio dell’illustre scienziato inglese con dovizia di particolari, compreso il fatto che si raccontava di come fossero stati presi a bordo degli indigeni, alcuni dei quali molto giovani, forse dei fanciulli. Quindi il mio amico poteva benissimo essere uno di loro.
    Per quanto possibile l’uomo cercò di soddisfare le mie curiosità. Certo erano passati trent’anni e i ricordi si confondevano o nel migliore dei casi apparivano frammentari e forse parzialmente falsati.
  • Ma io son venuto per parlare con te – mi disse a un tratto ponendo fine alle mie domande.
  • E cosa vuoi sapere? – Risposi meravigliato.
  • Voglio raccontarti una storia, che ti riguarda – disse accompagnando le parole con gesti che chiedevano attenzione.
    Restai muto, di tutto mi sarei aspettato ma non che qualcosa mi legasse a quella remota terra lontana migliaia di miglia da casa mia, ma con la testa indicai che ero in ascolto e che poteva parlare.
  • Molto tempo fa – iniziò – prima che il cielo e la terra fossero creati, il Padre dell’Universo P si unì con la Madre M. Essi concepirono molti figli. Costoro nati da genitori divini divennero essi stessi divini e quindi dei. Tuttavia pur essendo perfetti nelle loro qualità, dopo aver vissuto un tempo infinito, se rapportato al tempo degli uomini, cominciarono a stancarsi della loro vita agiata.
    Decisero pertanto di parlarne con P. Il Padre Celeste ascoltò con molta attenzione la richiesta dei suoi figlioli e prese molto seriamente la cosa. Infatti, dal giorno seguente, si assise sul trono assieme a sua moglie e cominciò a chiamare a uno a uno i figli dal primogenito fino all’ultimo partorito. A ognuno assegnò un potere. Chi aveva potere sull’aria, chi sul mare, chi sui venti, chi sulle selve, chi sull’ira e chi sulla pace e via dicendo. Ma non essendo stato creato ancora nulla dell’universo gli dei restarono delusi non sapendo come utilizzare i poteri. Ancora una volta il Padre Celeste acconsentì ai desideri dei suoi figli e in una sola volta creò il cielo e la terra con tutte le cose che ci sono ancora oggi eccezion fatta per gli uomini. Ora tutto sembrava a posto. I giovani Dei erano felici di correre da un angolo all’altro del firmamento per esercitare i loro poteri. Tuttavia il padre P passeggiando sulla terra riconobbe che pur essendo molto bella mancava della sua gemma più preziosa. Fu proprio mentre si era fermato a riposare presso un limpido laghetto che ebbe l’intuizione. Vide riflessa sulla superficie del lago la propria immagine e se ne compiacque.
  • Quest’ultima creatura cui darò la vita – disse – sarà la più bella di tutte perché riceverà le mie fattezze se sarà uomo e quelle di mia moglie se sarà donna.
    Così nacque la razza umana.

Il mio amico narratore a questo punto si arrestò cercando di comprendere se fin lì avessi seguito il racconto. Devo dire che ne ero rimasto affascinato, anche se dovevo faticare a seguire quell’ inglese stentato. Feci cenno che poteva continuare.

  • Nel mondo le cose andavano bene – riprese – Gli dei erano felici e anche gli uomini lo erano. Costoro vivevano in pace, tutti erano bellissimi e uomini e donne si univano tra loro con grande desiderio.
    Il Padre Celeste si soffermava spesso ad ammirare dall’alto delle più erte montagne la sua opera e ne traeva godimento. Spesso i grandi uccelli vedendo il padre della creazione sugli alti picchi montani lo raggiungevano per salutarlo con voli festosi.
    Nulla sembrava incrinare la felicità discesa per volontà divina sulla terra.
    Tuttavia una mattina durante una splendida aurora il Padre Celeste P dall’alto di una bianca nube scorse la bella N. La ragazza era bella e da molti uomini desiderata. Ma essa sentendosi superiore a tutti per le sue fattezze perfette non si concedeva.
  • Solo da un dio accetterei di essere posseduta – confidava agli animali delle selve che estasiati la seguivano ovunque.
    Quando il Padre P*** udì questo proposito, ne fu irritato.
  • Tanta presunzione va punita –si disse – come può una donna, della razza umana, avere l’ardire di giacere con un dio?
    Così disceso dal Cielo, il padre P si avviò per incontrare nel folto di una selva la bella e altezzosa fanciulla.
    Quel giorno il sole prese a brillare più intensamente sapendo che il Creatore sarebbe sceso fino a terra. E il cielo si tinse di un blu luminoso e profondo. E i fiori sparsero per ogni dove i profumi più fragranti in suo onore. E il vento si fece zefiro, dolce come il miele delle api e gli uccelli cantarono un canto soave. Quando il Padre Celeste raggiunse la radura dove N
    la bella, prendeva il bagno, fu egli stesso sopraffatto dall’avvenenza della ragazza.
  • Davvero – si disse – in lei la mia creazione si è compiuta.
    E dimentico di ogni proposito di punire la superbia della giovane si svelò e d’un tratto la prese.
    Ancora il mio amico fece una breve pausa. Io ascoltavo con attenzione il racconto rapito dall’ingenuità della narrazione. Il mio amico continuò.
  • Dopo nove mesi la bella N si ritirò presso la radura in cui si era unita con il Padre P, per partorire. Ma quando arrivarono le doglie, il Padre P le udì su nel cielo e trepidante per la sua bella scese a confortarla. Tuttavia la Madre degli Dei M anche lei udì i lamenti della ragazza e subito comprese il tradimento di cui era stata vittima.
    Allora piena di rancore si precipitò sulla terra per uccidere N e il bimbo appena fosse stato dato alla luce. Ma il Creatore ebbe compassione della ragazza e anche di sua moglie di cui comprendeva molto bene la collera. Così con atto sovrano della sua volontà nascose la ragazza agli occhi di M e di tutta la creazione. Da allora nessuno sa veramente se N*** abbia partorito dando alla luce un figlio divino.
  • E’ una bella storia – dissi – assomiglia ad altre di cui ho qualche conoscenza…
  • Non capisci – intervenne con fermezza il mio amico – questa storia ti riguarda.
  • In che modo? – chiesi perplesso.
  • Ora devi sapere che molto tempo fa degli uomini sapienti impararono a cogliere le flebili voci degli spiriti che vagano senza meta nell’aria. Alcuni sciamani quando le nostre gelide pianure sono spazzate dai venti impetuosi che giungono dal mare, si mettono in ascolto per cogliere i lamenti dello spirito di N*** per il suo bambino. Si racconta, infatti, che la bella vaghi senza sosta tra le nebbie, per tenere nascosto il figlio, che mai fu conosciuto dagli altri dei. Purtroppo la sua unica qualità è l’incertezza, il dubbio, non sapendo egli stesso di essere nato e non avendo ricevuto poteri dal suo Padre Celeste. Per questo noi veneriamo tutti coloro che soffrono nella solitudine e nell’incertezza e celebriamo la festa del Dio Incerto, perché pensiamo che in loro abbia preso dimora il Dio, per riposarsi del suo eterno vagare. Ecco perché quando ti abbiamo trovato sulla riva dell’oceano, privo di sensi, prima ti abbiamo soccorso e poi, abbandonato. Perché tu provassi l’angoscia della solitudine. In te, che avevi vissuto la disavventura del naufragio doveva essere disceso il Dio Incerto, il Dio umano, figlio di donna, che dimora tra gli uomini. Ora che hai passato tutto questo e con atto caritatevole gli hai dato rifugio per una notte, vieni nel villaggio, sarai da tutti onorato come sapiente, avendo ricevuto lo spirito di Dio, e potrai prendere dimora tra noi, finché vorrai.
    Gli indigeni furono molto ospitali – concludeva Cosimo Signorelli – e mi riservarono un’accoglienza calorosa. Per me imbandirono una ricca tavola con cibi prelibati, per i loro gusti, un po’ meno per i miei, e danzarono e cantarono per tutta la notte, indossando costumi e maschere che certamente dovevano rappresentare gli dei del cielo e gli spiriti degli antenati. Purtroppo il frammento di lettera, quasi un intero foglio, vergato con una buona calligrafia, sebbene scolorita, non recava ulteriori informazioni. Ricerche approfondite condotte nei vari archivi cittadini non condussero a nuove scoperte. La testimonianza del Signorelli, pur se incompleta, ha riportato alla luce credenze e costumi di un misterioso popolo di cui non si è conservata traccia. Sull’attendibilità del naturalista pisano, d’altronde, non si ha motivo di dubitare data l’ottima reputazione di cui godette nella società scientifica del tempo e tra i suoi concittadini. E pertanto riguardo alla fantasiosa storia riportata, in mancanza di riscontri oggettivi non sappiamo proprio cosa pensare.
    Alla fine non resta che il dubbio, dono del Dio Incerto all’umanità, come avrebbero saggiamente sentenziato gli indigeni della storia. E come gli indigeni seppero apprezzare la debolezza del Dio Incerto così anche noi faremmo bene a considerare il dubbio come il dono più prezioso, a pensarci bene, il mattone primario dell’intelligenza, scintilla indispensabile sulla strada della conoscenza.
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