#163 - 25 luglio 2016
AAAAA ATTENZIONE - Amici lettori, questo numero resterà  in rete fino alla mezzanotte di venerdi 05 aprile, quando lascerà  il posto al numero 349. BUONA LETTURA A TUTTI - Ora ecco per voi alcune massime: "Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all'infinito" (Jacques Attali) "I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perchè (Mark Twain) "L'istruzione è l'arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo" (Nelson Mandela) "Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare" (Socrate) La salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale: uniamo gli sforzi perchè i servizi sanitari siano accessibili a tutti (Papa Francesco) Il grado di civiltà  di una nazione non si misura solo sulla forza militare od economica, bensì nella capacità  di assistere, accogliere, curare i più deboli, i sofferenti, i malati. Per questo il modo in cui i medici e il personale sanitario curano i bisognosi misura la grandezza della civiltà  di una nazione e di un popolo (Alberto degli Entusiasti) Ogni mattina il mondo è un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosità, vengano a impregnarlo dei loro colori" (Fabrizio Caramagna)
Racconto

La gara

di Ruggero Scarponi

LA GARA

Se non fosse stato che a scuola me la cavavo piuttosto bene, dei miei quindici anni non avrei gran che da ricordare. A quell’età ero goffo, piuttosto grassoccio, impacciato e nonostante desiderassi l’amicizia delle ragazze, ne ero terribilmente intimidito. Se una coetanea carina mi rivolgeva la parola per un qualunque motivo, cominciavo a balbettare e diventavo rosso. Non mi piacevo e questo mi rendeva insicuro. E allora mi rifugiavo nei libri. Nei libri e nel cibo, intanto che guardavo con malcelata invidia i miei compagni più intraprendenti sempre pieni ragazze. Quell’anno, dunque, per le vacanze estive, andammo in montagna. Mio padre scelse una località immersa nei boschi. Luogo privilegiato per escursioni e arrampicate. Tutte attività che evitavo accuratamente. Preferivo, alle alzatacce, il tepore del letto e alle salutari passeggiate la quieta lettura di un libro. E mentre i miei passavano tutto il giorno tra sentieri e boscaglie io mi crogiolavo al tiepido sole montano, in giardino, su una confortevole sdraia, tra buone letture, bibite e spuntini vari. Eppure, persino a uno pigro come me, quella vita comoda e statica alla fine venne a noia. Fu così che mi decisi a fare una capatina in paese per distrarmi un poco. Al solito, papà e mamma, si dovevano essere arrampicati da qualche parte e io avevo un sacco di tempo a disposizione. Il paese era come doveva essere, un classico paese di montagna. C’erano Hotel prestigiosi per una clientela selezionata e le pensioni familiari che offrivano pacchetti, tutto compreso. E poi i bar, quelli lussuosi delle vie centrali, arredati nel tipico stile alpino, perennemente frequentati da giovani sfaccendati capaci di spendere per un aperitivo l’equivalente della mia paghetta mensile. E naturalmente non potevano mancare numerosi negozi di articoli sportivi traboccanti di attrezzature da montagna, come se da quelle parti, persino le casalinghe dovessero indossare pedule e ramponi per andare a fare la spesa. Comunque, si respirava un’atmosfera festosa. E questo mi piaceva. Così come mi piaceva l’odore del capriolo stufato, con funghi e polenta, che servivano ai turisti nei ristorantini sotto i portici. Ma chi mi piaceva più di tutti era…Caterina. Irraggiungibile. Per me almeno. Irraggiungibile come lo sarebbe stata la cima della montagna che sovrastava il paese. Dodici ore di sentiero ripido con passi di roccia da far tremare i polsi. Caterina, così qualcuno l’aveva chiamata, l’avevo vista per la prima volta in chiesa, durante la messa. Doveva avere un sedici o diciassette anni, quindi, almeno due più di me. E non era poco. Ma era la sua figura a imporsi. Alta, tonica, un temperamento sportivo che tradiva un amore per la vita attiva, il movimento…Irraggiungibile, considerando le mie più tranquille inclinazioni. Tuttavia avvenne che mio padre e mia madre, dopo alcuni giorni di entusiasmo per la natura fossero presi da una violenta crisi di rigetto. Non solo si rinchiusero in casa a godere del più sfrenato riposo, ma pretesero addirittura di passare a me il testimone e che fossi io a tenere alto lo stendardo del salutismo sportivo. Ne parlammo. Con elevate punte polemiche e alfine grazie a una strenua difesa del mio diritto all’ozio estivo riuscii a negoziare la partecipazione a un torneo di tiro con l’arco. Attività per me, priva di qualsiasi interesse, ma almeno non dispendiosa sul piano fisico. Non avevo alcuna cognizione dello sport in generale e l’arco, avrei potuto scambiarlo per uno strumento musicale. Nessuna paura. Dal momento che la gara era aperta a tutti, anche a coloro che non avevano mai fatto un’esperienza del genere, l’organizzazione aveva messo a disposizione un istruttore per fornirci i rudimenti dell’arte. Mi tremarono le ginocchia e mi prese una morsa allo stomaco quando mi resi conto che la bella Caterina si era iscritta alla gara. Pregai Dio di non trovarmela di fronte, sarei morto di vergogna a dover competere con lei. Però fu grande la sorpresa, quando l’istruttore al quale ero stato affidato, incredulo e veramente sorpreso, mi annunciò che durante le prove, non avevo fallito nessun tiro. Avevo centrato tutti i bersagli. Non mi esaltai più di tanto. La competizione avrebbe previsto ben altre difficoltà che quelle sulle quali mi stavo esercitando. La mattina della gara si presentò luminosa con un bel sole e senza mezza nuvola a minacciare. I bersagli erano stati sistemati su un verde pianoro circondato da scure masse di abeti. Papà e mamma mi avevano accompagnato e avevano preso posto dietro le transenne, tra il pubblico. La formula era abbastanza semplice. Si procedeva per eliminazione diretta. Uno contro uno e chi sbagliava andava fuori. E si passava all’avversario successivo. Per la più parte eravamo dilettanti alla prima esperienza. Comunque tra un tiro e l’altro riuscii a cogliere qualche voce, qualche commento. Appresi ad esempio che Caterina non si era segnata alla gara occasionalmente. Era una campionessa nel tiro con l’arco e ambiva al trofeo finale. Molti facevano apprezzamenti sulla sua bellezza e appresi anche che non era fidanzata. Ma tanto, figurarsi se una come lei si sarebbe mai accorta di uno come me! Intanto, però, andavo avanti. Avevo sbaragliato diversi avversari e mi stavo avvicinando sempre più alla cerchia dei più forti e a …Caterina. Non mi prendevo sul serio. Al prossimo, vado fuori, mi dicevo. E invece no, continuavo a centrare i bersagli senza difficoltà. Mi sembrava una cosa talmente semplice che non riuscivo neanche a comprendere come si potesse sbagliare. Se uno guardava…prendeva la mira…seguiva il giusto movimento…Insomma era tutto lì il tiro con l’arco non ci voleva una particolare abilità. E non mi ero neanche accorto di essere arrivato in finale. Io contro Caterina. Non ero emozionato, tanto la cosa era fuori dalla mia testa. Possibile? Io in finale? Io, che fino al giorno prima, l’unico arco che avevo visto era quello degli indiani, al cinema. Ebbene si, dovevo vedermela io con la bella. Certo non potevo pretendere di avere il tifo del pubblico a favore. Scherziamo? Caterina si imponeva in tutto e per tutto. Vicino a lei facevo la figura del rospo con la principessa. Lei così bella e agile e io invece bassotto e grassotto con i miei capelli color polentina pallida. Prima di cominciare mi volle stringere la mano e io divenni tutto rosso. Poi prendemmo posto e iniziammo. Continuavo a non sbagliare nulla e sebbene anche Caterina centrasse con sicurezza i bersagli uno dopo l’altro, cominciai a notare in lei un certo nervosismo. Forse non si aspettava di dover lottare per vincere. Ma io, anche avessi voluto sbagliare non ci sarei riuscito tanto mi sembrava naturale andare a bersaglio. Caterina sudava e smaniava, ogni tiro le stava diventando gravoso. Specialmente la mia aria indifferente e tranquilla la metteva in agitazione. Non era proibito parlare tra avversari e d’improvviso mi chiese da quanto praticassi quello sport. Stavo per dirle, giusto da un giorno, ma poi mi trattenni e mentii, dicendo che tiravo da quando ero piccolo. Mi disse che lei ci teneva a vincere. Me lo disse senza metafore. Io non compresi e risposi con la frase più sciocca che mi venne in mente: vinca il migliore! Ebbe un gesto rabbioso, mi insultò a mezza bocca e io ne rimasi sorpreso. Poi, diventando improvvisamente gentile, mi sussurrò…Come? Una come lei, che si metteva a pregare uno come me? Mi propose di sbagliare. Così, diretta, senza farsi sentire dai giudici. E in cambio….Poi toccò a me tirare. E io scagliai in cielo, l’ultima freccia.

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