Il complotto
Parte prima
di Ruggero Scarponi
In una limpida giornata di aprile, a metà del diciottesimo secolo, una carrozza scendeva traballando sull’acciottolato irregolare della ripida stradina che dal castello conduceva al paese.
Per i villici del luogo, indaffarati nei lavori agricoli, non era una novità , conoscendo essi le abitudini del Signor marchese De Mellors. Costui, infatti, era solito fare una passeggiata la domenica mattina fino al villaggio, dove, una volta giunto sulla piazza, si intratteneva in amichevole conversazione con gli abitanti.
Il Signor marchese, ricco aristocratico di antica discendenza, era proprietario di vasti possedimenti. Ed essendo imbevuto di idee progressiste, acquisite a contatto con gli ambienti politici e filosofici della capitale, invece di starsene in ozio come i suoi pari, dediti solo agli agi e ai piaceri mondani, si prodigava affinché ognuno dei suoi dipendenti fosse il più felice possibile. Ed era coadiuvato attivamente in questo proposito da sua moglie, madame De la Pleyade. Essendo molto ricco, si compiaceva di risolvere, seduta stante, ogni volta che sostava al villaggio, qualche urgente necessità , suscitando meraviglia e riconoscenza in tutti gli abitanti, sbigottiti per la sua liberalità .
Va ricordato inoltre che praticava i più bassi canoni d’affitto di tutta la regione e che curava personalmente il periodico restauro delle abitazioni dei coloni.
Davvero il nobil’ uomo, oltre alla propria fortuna, vedeva crescere negli abitanti delle sue terre la prosperità e l’abbondanza a confronto delle popolazioni confinanti, soggette alla rapace signoria di nobili, così detti, solo in virtù di un blasone. Ora avvenne che questi signori mal sopportassero quelle che definivano senza mezzi termini, le stramberie del marchese che con la sua filantropia rischiava di compromettere l’ordine sociale. Per questo motivo decisero di tenere un consiglio straordinario in cui deliberarono di rivolgersi a Monsieur Papin noto avvocato locale affinché rinvenisse, dove possibile, una legge, una norma, un cavillo che impedisse al marchese di continuare nella sua pericolosa condotta.
Il legale , interpellato, rispose di buon grado nella speranza di fornire un servigio che sarebbe stato ben ricompensato da tutti quegli illustri personaggi. Ma ascoltato cosa gli si chiedeva in fondo, per quanto desideroso di accondiscendere le loro signorie non gli riuscì di trovare un motivo che fosse uno, per intentare una causa contro l’amabile signore.
- Illustrissimi – disse l’avvocato – Sua Eccellenza il marchese, ahimé, per la legge, non fa nulla di male. Se ritiene opportuno restaurare una casa colonica, o dare in affitto un terreno a equo canone, non si può impedirglielo, è nel suo diritto… Egli è libero di utilizzare il suo denaro come meglio crede. – e aggiunse quasi per giustificarsi - Ho passato tutta la notte a sfogliar Codici… – e qui il pover’uomo notando la delusione dei presenti cominciò a sudare per la paura, temendo di fare lui, che non c’entrava per nulla, le spese del disappunto di quei signori.
- Troveremo il modo – disse, tagliente come una lama e duro come la pietra, il Duca di Challans chiudendo la seduta del consiglio e licenziando, naturalmente senza compenso, il povero Papin.
Il modo cui alludeva il duca altri non era che l’inganno, la frode e/o qualsiasi marchingegno potesse recar danno al filantropo.
E l’occasione si presentò poco tempo dopo grazie a uno dei domestici del visconte di Bujol.
Il villano, un tempo, aveva prestato servizio presso l’ottimo marchese e ne era stato licenziato per gravi motivi di moralità sui quali non staremo qui a darne conto. Fatto sta che venuto a conoscenza delle ambasce dei nobili, in modo del tutto casuale, origliando cioè alla porta della camera dei padroni, subito vi scorse la possibilità di una vendetta da tempo meditata.
Così prese la decisione. Chiese udienza al visconte, si presentò con fare oltremodo cerimonioso, esibendosi in un inchino che sembrava quasi una pantomima e avuta licenza, parlò:
- Magnifica Eccellenza, Signor Visconte… – ma essendo ignorante come una capra, dopo le iniziali formule d’ossequio non fu in grado di proseguire sullo stesso tono. Infatti, cominciò a farfugliare e a balbettare in maniera incomprensibile, tanto che il Visconte spazientito, lo invitò senza mezzi termini a esprimersi come credeva, senza porsi problemi d’etichetta:
- Santi numi, buon uomo, parlate finalmente come più vi piace. Ma per amor del cielo fate che io comprenda qualche cosa di quello che dite!
- Ecco signor Visconte – tentò il servitore di giustificarsi - è che forse avrei in mente la soluzione a un certo problema.
- Ma insomma! Dite, dite allora!– Esclamò il nobile che avrebbe desiderato liberarsi al più presto di quel seccatore.
- Chiedo licenza a Vostra signoria – disse il domestico, prostrandosi fin quasi a terra. Subito dopo si avvicinò all’orecchio destro del visconte e tutto d’un fiato, gli spifferò dentro, il piano meditato a freddo. E per farlo fu costretto a sollevargli una lunga ciocca dei capelli che morbidi e fluenti com’erano occultavano completamente la vista del nobile padiglione auricolare.
Dapprima il Signor visconte reagì con insofferenza alla libertà che si stava prendendo l’uomo, scuotendo vigorosamente la testa ed emettendo grugniti e gemiti di fastidio. Ma appena gli riuscì di cogliere qualcosa del piano, subito mutò espressione, divenendo gioviale e perfino amichevole. - Amico mio - urlò al termine del conciliabolo – amico mio! Vi siete meritato una buona moneta e una buona bevuta - e nel contempo gli fece cenno di versarsi un bicchiere di un malvasia stravecchio da una caraffa di cristallo che si trovava sulla tavola al centro della stanza, mentre gli lanciava, affinché la cogliesse al volo, una preziosa moneta d’argento.
Quella sera stessa il visconte si fece annunciare al duca di Challans, il capo riconosciuto della lega nobiliare.
Trovò l’aristocratico, dopo cena, intento al gioco del whist, com’era d’uso tra i signori di quel tempo.
- ma che accidente vuole quel tanghero, per disturbarmi a quest’ora? – biascicò il burbero, nel mentre si apprestava a raccogliere le carte appena distribuite.
Il valletto che gli aveva recato il messaggio, allora, si piegò in due su di lui, per dirgli qualcosa, senza farsi intendere dai presenti.
Il nobile, ascoltò con espressione severa e poi all’improvviso strabuzzò gli occhi, gettò le carte sul tavolo ed esclamò in tono trionfale: - Signori il whist può attendere. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci.- E rivolgendosi alle dame sedute al tavolo, curiose di conoscere la novità , disegnò nell’aria un ampio ed elegante gesto del braccio, e poi esclamò:
- Voila, Mesdames, c’est la guerre!
All’annuncio, tutti gli uomini scattarono in piedi, gridando a una voce: - Urrà ! Urrà ! Urrà !
Dopo di che ognuno come fosse nel pieno della battaglia si dispose a scortare il duca nella biblioteca, dove un altro valletto era già pronto con il cognac, indispensabile per affrontare i momenti di maggiore gravità e pericolo.
Le nobildonne, invece, continuarono imperturbabili a giocare, appropriandosi però dei gruzzoli lasciati incustoditi dai bellicosi gentiluomini. - C’est la guerre! – sghignazzò la duchessa facendo il verso al marito – volesse il cielo…! – concluse ridacchiando sommessamente insieme alle altre signore riunite intorno al tavolo.
- stanotte, io penso – disse una giovane dama, nascondendo il viso dietro a un ventaglio, civettuola e con la voce fina e squillante come un’ocarina – può darsi che anche noi avremo delle buone battaglie, che ne dite?–
Oui, Oui – squittirono in coro le signore. Che nel frattempo erano state raggiunte tutte dai rispettivi amanti, avendo i legittimi consorti, abbandonato il campo per correre alla guerra.
Il consiglio straordinario presieduto da Sua Eccellenza il duca durò fin quasi al mattino. E si concluse solo per esaurimento fisico. Infatti, la più parte di quei signori era completamente ubriaca e da alcune ore, incapace di comprendere alcunché. Vista la situazione sotto il profilo alcolico e militare, il duca decise una ritirata strategica, convocando un nuovo consiglio di guerra a tempo debito. Le signore invece, sul far dell’alba, prima dell’arrivo dei mariti, ancora assonnate e frastornate dalle battaglie notturne, salutarono a furia di baci i loro cherubini che si affrettavano, più che mai soddisfatti, a lasciare i letti che tanto avevano contribuito a riscaldare.
(continua)