Il dente
di Ruggero Scarponi
Da due anni lavoravo nella fabbrica delle ceramiche, poco a valle del paese, dove il torrente salta giĂą dalle rocce per tuffarsi nel fiume. Da bambino, era stato il mio regno.
La zona era lussureggiante di arbusti, fitti canneti e pozze d’acqua limpida, dove nuotavano una quantità di pesci e crostacei. Ci andavo spesso con i miei amici a pesca o a fare il bagno durante gli interminabili pomeriggi estivi. Ricordo ancora l’incanto dei raggi solari filtrati attraverso il fogliame degli alberi, un gioco di luci d’oro, e verdi cangianti. Poi vennero le industrie e in pochi anni il paesaggio cambiò. I canneti e i boschi lasciarono il posto ai capannoni. E le industrie cambiarono la testa della gente. In tanti agguantarono un po’ della ricchezza che era scesa in paese. I piccoli artigiani e i commercianti di un tempo divennero imprenditori. In testa avevano una sola cosa: fare soldi e riscattare un passato gramo di povertà e rinunce.
Ora lavoravo in fabbrica, ero carrellista nel magazzino delle consegne e facevo parte della squadra dei kamikaze, quelli che per denaro erano disposti a lavorare su qualsiasi turno e anche nei giorni festivi. Gli altri operai ci chiamavano “i senza Dio”, privi di etica e di solidarietà sindacale. Eravamo di quelli che giudicano il mondo e le persone in base ai soldi. E di soldi ne facevamo. Non ci spaventava lavorare per due o tre turni consecutivi monetizzando perfino i riposi. L’importante era guadagnare. Il padrone ci voleva bene, in fabbrica eravamo l’antidoto agli scioperi e alle rivendicazioni e per questo di tanto in tanto ci allungava degli extra.
Gli altri colleghi, invece ci evitavano, ma non importava perché noi ci sentivamo un gruppo esclusivo, un’elite.
Infatti, alla fine del mese eravamo i più invidiati, perché le nostre paghe pesavano anche il doppio in più delle altre. A pagarci era il ragionier Conti un uomo obeso, giovane ancora, sui cinquanta forse, ma che ne dimostrava molti di più. Fu a causa sua se uscii dalla squadra. Dopo che qualcuno mi raccontò la sua storia e il lavoro che faceva nella fabbrica. Morì giusto quell’anno, durante l’inverno. La sua morte mi fece una certa impressione. L’avevo sempre considerato come una di quelle cose eterne, o quasi, come le querce ad esempio, grandi e inattaccabili capaci di attraversare i secoli. Non mi rendevo conto di quanto fosse fragile in realtà . A parte la busta paga che mi allungava da dietro la scrivania alla fine del mese, non avevo nessun rapporto con lui. Eppure mi ero abituato alla sua presenza, come un nume tutelare, una specie di grosso totem, una di quelle divinità protettrici dei popoli primitivi.
Luca era un ex-collega, il primo che uscì dalla squadra, anzi dall’Azienda.
- Quelli t’ammazzano – mi disse un giorno incontrandolo al caffé – vieni via da lì, finché sei in tempo. Fui sorpreso dall’avvertimento, più che altro perché non avevo amicizia con Luca e al massimo ci scambiavamo un saluto frettoloso.
- Stasera vieni a farti una grappa – continuò – che ho da parlarti. Ma mi raccomando, non andare a dirlo in giro.
Sembrava una cosa misteriosa e un po’ m’intrigava. Perché mai Luca aveva pensato di confidarsi con me che non eravamo neanche amici?
Non andai a farmi la grappa con Luca quella sera, con la squadra dovevamo sostituire alcuni che s’erano messi in malattia, doppio turno e doppia paga, un’occasione ghiotta da non lasciarsi sfuggire. Ma un po’ d’inquietudine Luca me l’aveva messa. A incontrarlo mi sentivo a disagio. A volte quando passavo davanti al bar lo scorgevo seduto a un tavolo che mi seguiva con lo sguardo e allora mi risuonavano nell’orecchio le sue parole come una maledizione: Quelli t’ammazzano.
Facevo di tutto per evitarlo e lui non mi disse più nulla. Ma i suoi sguardi, quando lo incrociavo per la strada, dicevano molto più di tante parole. Mi scavavano dentro ed era come se portassero allo scoperto una verità che io facevo di tutto per negare come se mi rifiutassi di riconoscere che aveva ragione lui: che alla fabbrica ci stavano ammazzando. Una notte mi svegliai di soprassalto come da un incubo e con un’idea fissa in testa. Com’era morto il ragionier Conti? D’infarto ufficialmente. D’altronde avevamo commentato tra operai, grasso com’era, era un soggetto a rischio. - D’infarto – mi confermò Luca. Sì, fu proprio Luca ad affrontarmi, una domenica mattina all’uscita dalla messa. Aveva ascoltato la domanda che avevo posto al medico aziendale, uno che conoscevo bene perché abitavamo nella stessa palazzina e prima che quello mi rispondesse si era inserito lui.
- Vieni ti offro un aperitivo – disse, sorridente.
Accettai. - No, qui in paese no – precisò – andiamo a farci una passeggiata su al belvedere. Guido io.
Il Belvedere era un posto stupendo, vi si dominava tutta la piana fino al mare. Lì la natura era ancora rigogliosa e dalla montagna si scorgevano sui clivi digradanti i ciuffi gialli delle ginestre e quelli verde scuro dei finocchi selvatici o i verdi vellutati dei pini, i marroni accesi delle querce quando le cortecce grinzose si fanno spesse e dure e poi le macchie più chiare dei basalti millenari. Ci fermammo al bar che aveva una terrazza protesa sull’ampio panorama. Rose rampicanti e bouganvilles sembravano fiammeggiare intorno alle mura di pietra della casetta. Ci sedemmo fuori, all’ombra, sotto a un pergolato da dove potevamo goderci tutto quello spettacolo.
Prendemmo due spremute di fichi d’india in bicchieri grandi e pieni di ghiaccio tritato. L’estate era già torrida e a quell’ora il sole quasi t’incantava con la luce accecante e un calore che ti toglieva il respiro. La bevanda fresca fu come un tonico. Il nettare zuccherino dei frutti e il fresco del ghiaccio ebbero il potere di riportarci a un pieno stato di coscienza togliendoci dalla malia dell’estate infuocata come’è dalle nostre parti.
- Perché siamo venuti fin quassù? – domandai dopo un po’ che eravamo seduti in silenzio.
Luca allora mi guardò e sorrise senza parlare. Lasciò trascorrere qualche istante prima di rispondermi. - E’ bello vero? – esordì accompagnando le parole con un ampio gesto del braccio in direzione della vallata. Io appoggiavo le labbra al bicchiere gustando il fresco della granita di ghiaccio e intanto cercavo una risposta. Che voleva dire Luca con quella frase?
- Si – convenni – da quassù è bello, anzi è bellissimo. La montagna, i boschi e laggiù in fondo, il mare…
- Eppure – rispose quasi sottovoce – qualcuno non sa nemmeno che esiste tutto questo.
Ascoltavo attento in attesa di conoscere cosa Luca avesse in mente.
Ma adesso sembrava quasi se ne fosse dimenticato preso com’era dallo spettacolo della natura. Poi finalmente si decise. - Il povero Conti c’ha lasciato le penne. – mormorò a fior di labbra. Fece una pausa prima di proseguire.
- Tu non mi credi – mi disse in modo diretto – quando dico che quelli giù alla fabbrica ti stanno ammazzando, vero? Pensi forse a qualche fantasia di uno come me, uno che se n’è andato, no?
- Non so cosa dire – obiettai – per me dici cose astruse, non capisco.
- Vuoi sapere cos’è che lega te e la vostra squadra dei kamikaze con il ragioniere?
- Vuoi sapere veramente di cosa è morto il povero Conti? Giù al paese non era il caso di parlarne, ma qui posso dirtelo come sono andate le cose.
- A te chi l’ha detto? Chiesi sospettoso.
Sorvolò completamente la mia osservazione. - A Conti non ha retto il cuore, - continuò - ma non per quello che tutti pensano, non è stato perché era troppo grasso o perché lavorava troppo. Era troppo innamorato invece.
Restai a bocca aperta. L’ultima cosa che mi sarei aspettato da uno come il ragionier Conti era che potesse nutrire simili sentimenti. - E di chi? – mi uscì spontaneo.
- Di una femmina, anzi di due, per la precisione.
A questo punto ero curioso di conoscere il resto della storia.
Si era fatta l’ora di pranzo intanto e fuori di quella piccola oasi a mezza costa sulla montagna, il sole era diventato il padrone assoluto. Inondava di una luce bianca e incandescente tutta la natura.
Decidemmo di mangiare lì sulla terrazza all’ombra, sotto il pergolato. Ci facemmo servire insalata e formaggio, insieme a una bottiglia di vino bianco, secco e gelato. Luca aveva preso a parlare nello stesso tempo che mangiava di gusto.
Anch’io apprezzavo la freschezza di quel cibo. L’olio dell’insalata, per esempio, era profumato, ci sentivo dentro un aroma di frutta, di pesca e di mandorla e in gola scendeva delicato e lasciava nel palato una leggera nappatura.
- Conti arrivò in azienda – cominciò Luca – appena diplomato. Lo presentò il padre che era un operaio addetto ai trasporti. Parlò al vecchio proprietario chiedendo se il figlio potesse fare un po’ d’esperienza in contabilità , solo per un mese o due, d’estate…Poi avrebbe cercato un lavoro in città . Invece si dimostrò talmente versato con i numeri che nemmeno un mese dopo gli offrirono l’assunzione a tempo indeterminato.
- Un bel colpo per un giovane – commentai.
- Una trappola, però. – disse amaro Luca.
- Un lavoro a tempo indeterminato! appena uscito di scuola, scusa se è poco – ribattei
- Certo, certo, ma non laggiù, nella fabbrica. Intanto lui pensava che gli stessero facendo un favore e andava fiero che in così poco tempo si fosse fatto valere. A quel tempo, poi, Conti era giovane, un bel ragazzo, con tanti progetti in testa.
- E allora?
- Lo misero a lavorare in contabilità , naturalmente. E siccome si era liberata la scrivania di Siani, il vecchio Siani, non so se te lo ricordi, quello che camminava col bastone…
Con la testa accennai di sì, me lo ricordavo. - Bene – riprese – gli assegnarono il suo posto.
Io aspettavo che continuasse il racconto ma Luca si era fermato.
Ne approfittai per ordinare il caffè, che arrivò quasi subito, denso con una schiuma marrone, bollente come l’inferno. - Lo misero a lavorare nel “dente”.
Aveva pronunciato la parola “dente” con un tono drammatico e io che non capivo aspettavo una spiegazione. - E allora? – lo incalzai.
- Non capisci? – ma lì nel dente, era isolato da tutti. Poteva solo lavorare, dalla mattina alla sera.
- Ci pagano per questo – affermai duro.
- E’ vero. Ma la faccenda è più complessa. Lo pagavano bene anche.
- E che più allora ? –
- Aspetta, lasciami raccontare che poi capisci.
Conti, da solo, lavorando dalla mattina alla sera, mandava avanti l’ufficio. Aveva appena una segretaria come aiuto, per andare a spedire le raccomandate e battere a macchina qualche lettera. Il resto lo sbrigava lui. Teneva in ordine i registri, le paghe degli operai, le tasse, il fisco…Tutto. Era un genio. In più conosceva a menadito tutta la legislazione e riusciva a far assegnare all’azienda mutui agevolati e finanziamenti persino a fondo perduto. Così bravo era che il padrone lo faceva star bene e un anno a Natale per regalo gli assegnò in comodato un appartamentino vicino alla fabbrica. - Si vede che se lo meritava – dissi convinto.
- Eccome! – riprese Luca – Eccome! Solo che non si rendeva conto di come il padrone lo legasse all’Azienda. Insomma, lo pagava abbastanza bene è vero, la casa gliela passava, ma …restava sempre un impiegato di contabilità .
Stava tutto il tempo a lavorare dietro quel maledetto dente, isolato da tutti.
Dopo qualche anno cominciò a ingrassare. Mangiare era diventata l’unica soddisfazione della sua vita. L’unica oltre il lavoro, che s’illudeva fosse suo. Ma tanto si dava da fare, tanto era bravo che tanto non si vedeva mai riconoscere veramente i suoi meriti. Sì come ho detto, guadagnava bene. Abbastanza da pensarci due volte prima di lasciare l’impiego per tentare altre strade. Ma non abbastanza da essere consapevole del suo ruolo e delle sue capacità . Era sempre e comunque un dipendente stipendiato, confinato in quella stanzetta dove ultimamente avendo raggiunto il ragguardevole peso di centocinquanta chili cominciava a starci stretto.
Una volta ascoltai casualmente un dialogo del padrone con la figlia, Virginia, che sarebbe andata poi, a fare il Capo dell’amministrazione.
Diceva il padre: - Conti ci fa risparmiare tre impiegati e un dirigente. Vale la pena di allungargli qualcosa di tanto in tanto. Vive da solo, noi siamo la sua famiglia…
Questo era vero. Il ragioniere si era ritirato dal mondo votandosi per intero all’azienda e nemmeno si rendeva conto di aver vissuto come un cane passando quattordici ore al giorno alla scrivania, sabati e domeniche comprese, per trent’anni. - Ti ricordi di come camminava male? A forza di star seduto gli era venuto un disturbo alle anche. Camminava con le gambe leggermente divaricate come se non gli funzionassero più le articolazioni.
- E poi? – chiesi ansioso di conoscere il resto.
- Si è innamorato.
- Di due donne hai detto.
- Di due femmine ho detto. La prima era stata l’Azienda, la seconda Virginia.
Lo hanno trattato tutte e due allo stesso modo. E d’altronde Conti, che era un uomo timido e non sapeva nulla di come si corteggia una donna pensò di comportarsi con Virginia come con l’azienda. Devozione assoluta in cambio di vane speranze.
Lo hanno lusingato, chiedendogli molto, senza dargli nulla di concreto in cambio.
Quando Virginia è andata a dirigere l’ufficio, per il ragioniere fu un colpo. Ci teneva a quella nomina, dopo tanti anni. E invece niente. Gli dettero un extra in compenso. Però ci sarebbe passato sopra. Perché quando Virginia fece la sua comparsa in ufficio, a Conti improvvisamente si aprirono gli occhi. Capì di aver bruciato la sua vita inutilmente. Tutto quello che aveva fatto fino allora era stato per gli altri. Lui ne aveva ricavato denaro, che non spendeva, non sapeva spendere e non aveva tempo per spenderlo. D’improvviso quella mattina comprese quante albe meravigliose, quanti tramonti languidi, quante odorose marine, montagne, foreste, e soprattutto quanti esseri umani aveva perso l’occasione di incontrare. Virginia scatenò in lui la passione. Lei era bella, aveva meno della metà dei suoi anni, abituata a tutt’altro genere di persone. Aveva conosciuto l’amore con più di un amante e si divertì al goffo corteggiamento di Conti. Si divertiva, forse anche in buona fede Virginia, non riflettendo a come possa essere crudele, in certi casi, incoraggiare un sogno. Come con la fabbrica, il povero Conti, alla fine restò con un pugno di mosche in mano.
Si arrestò Luca. E fece una lunga pausa.
Il sole declinava e sulla montagna cominciava ad allungarsi qualche ombra.
La sera prometteva frescura. Dal mare si alzava qualche breve folata recando fin su al belvedere brandelli di profumi: I salmastri delle alghe sfatte sulla battigia ricoperte dalle schiume grosse e sporche di sabbia delle brevi ondate che anticipano l’alzarsi della marea.
Quando dopo alcuni minuti di contemplazione riprese il discorso, disse:
- Hai compreso?
- Si – risposi -. Ma perché proprio a me l’hai detto?
- Perché nonostante tutto, tu sei uno di quelli che ancora sarebbe capace di mettersi tutta la notte insonne ad aspettare l’alba per il solo gusto di vedere spuntare il primo spicchio di sole dietro alle montagne. Tu sai che certe cose non si comprano e non hanno prezzo. I soldi sono buoni se ti aiutano a capire questo, altrimenti… Vieni via da lì o farai la fine di Conti. Ti accorgerai troppo tardi che non vale la pena di rinunciare alla tua vita, per un po’ di denaro.- Luca terminò di parlare mentre sembrava volesse cogliere, con lo sguardo per un’ultima volta quel giorno, tutto l’infinito che gli si presentava davanti. Oramai la montagna incombeva con la sua ombra materna sulla vallata disputando con il sole ogni striscia di terra, ogni ciuffo di ginestra ogni albero. All’orizzonte la luce da bianca che era si era fatta prima gialla e poi sotto un cielo di azzurro intenso quasi violetto cominciava a tessere i primi fili d’arancio sull’imminente tramonto.
Tornai a casa con un velo di tristezza nell’anima. Bisognava riflettere, pensai, e forse dare un nuovo corso alla vita.