Le secche di S.Andrea
parte seconda
di Ruggero Scarponi
Fantasie…e paure
Nei primi giorni decisi di accogliere un suggerimento di Frederick, il tedesco di Amburgo, dare un nome alla geografia dell’isola. Così la formazione di scogli con la grotta dove alloggiavamo divenne, il Castello.
La sottile linea di spiaggia a nord, dove eravamo approdati, venne battezzata, Lido di S. Salvador, mentre quella a sud per via di alcuni cespugli e qualche canna, il canneto. La riva destra della baia fu chiamata, la riviera e quella di sinistra, il porto, per via dei relitti che vi si erano incagliati. Nominare i luoghi si rivelò di grande utilità perché consentiva a tutti, grandi e piccoli, di identificarli con sicurezza, specialmente in caso di pericolo, semmai si fosse presentato.
Risolti i problemi più urgenti ripresi con René lo strano discorso che avevamo iniziato il primo giorno. Lo affrontai mentre perlustravamo un tratto di spiaggia – senti René, esordii, che volevi dire quando hai accennato a quelle “secche”? - Non molto, per la verità , - rispose - tutto quello che so è quanto ho orecchiato qualche tempo fa in un bar, da un vecchio marinaio. C’era stato un probabile naufragio in una zona di mare vicina a quella dove ci trovavamo noi l’altro giorno, e mentre si attivava la macchina dei soccorsi, sentii il marinaio bofonchiare tra sé e sé: mi sa che “quelli” sono finiti sulle secche di Sant’Andrea…se è così, sono belli che fottuti, non torneranno più. In effetti, di quel naufragio nessuno fu ritrovato, neanche la barca.
Naturalmente non detti importanza alle parole del vecchio. Passò del tempo e un paio di mesi fa avvenne un altro fatto simile, sempre nello stesso tratto di mare. E detto fra noi, quello che trovo strano in tutto questo, non sono i naufragi, ma il fatto che dopo, non si ritrovi più nulla…una barca alla deriva, qualche relitto sparso qua e là …niente di niente. E per tornare ai casi nostri, sono sconcertato. Che cosa ci ha urtato, mi domando, se gli strumenti non hanno segnalato ostacoli di qualche tipo? - René aveva una notevole esperienza marinaresca e grazie ad una più che agiata condizione famigliare si era potuto dedicare, fin da giovanissimo, alla sua passione per il mare e le barche a vela. Sentirlo ora parlare di cupi misteri riguardanti il mare, confesso che mi disorientava. Più che altro notavo in lui un cambiamento, sembrava distratto e anche quando teneva le sue lezioni di marineria non mi sfuggiva, conoscendolo bene, che durava fatica a mantenere la concentrazione.
Ma soprattutto ciò che non capivo era la sua paura, una paura misteriosa che sembrava sorgere dall’abisso del suo inconscio e per questo, irrazionale e terribile. René aveva cominciato a temere il mare. Me ne accorsi distintamente durante una passeggiata sul Lido. Mentre parlavamo del piano di lavoro giornaliero, lungo la linea di costa, fummo investiti da un’onda appena più grande delle altre. Naturalmente non c’era nessun pericolo, al massimo fummo raggiunti al volto da qualche spruzzo. Eppure in quell’occasione René ebbe una reazione esagerata. Fu percorso da un brivido violento, e con il volto contratto dalla paura si allontanò rapido dalla battigia. Subito riprese il controllo cercando di minimizzare l’accaduto. Feci finta di nulla ma notai la cosa. Decisi, però, di affrontare l’argomento frontalmente. - Non mentire con me, René, ti conosco troppo bene per non accorgermi che c’è qualcosa che ti preoccupa seriamente. - Ma, non so - si difese blandamente - sono solo dicerie, fantasie di vecchi marinai. - Fantasie che però ti fanno stare male - lo incalzai. - E’ vero - disse cupo - mi fanno stare male, ma neanche io so il perché. Percepisco un pericolo oscuro, dentro di me. E’ come se un nemico nascosto, ci stesse osservando aspettando il momento propizio per colpirci. Non è un caso che siamo finiti su quest’isola. Sento che dovremmo prepararci ad affrontare qualcosa…di terribile. - Lo guardai fisso per un lungo istante, cercando l’ombra di un sorriso che potesse sdrammatizzare quelle parole. Ma René non aveva mai parlato tanto seriamente. Il suo sguardo era fisso su di me, ma era chiaro che mi stava attraversando per vedere qualcosa che ancora non riusciva a mettere a fuoco e che lo terrorizzava. Era impallidito. Gli toccai la fronte per assicurarmi che non avesse la febbre ma lo trovai gelato e coperto di sudore. Dovevo assolutamente riportarlo alla realtà . Lo scossi e con una risata di scherno cameratesco gli dissi - non ci provare, con me non funziona e tanto non mi spaventi. Manca una settimana alla partenza, tutto procede secondo i piani e se Dio vuole, tra una decina di giorni saremo a casa. - Se Dio vuole - mormorò sottovoce.
Vigilia di partenza
Il piccolo cantiere che avevamo approntato per varare l’imbarcazione che avrebbe dovuto condurci in salvo, procedeva a meraviglia. L’entusiasmo dei miei compagni era palpabile e spesso dovevo impormi per far rispettare i turni di riposo ed evitare eccessivi carichi di stress fisico. I bambini guidati da Stefano, il più grande, ormai provvedevano alla pesca da soli e con perizia, lasciando agli adulti più tempo per lavorare al cantiere. Anche le Signore erano inserite nei gruppi di lavoro e così arrivammo al venerdì dell’ultima settimana essendo fissata per la domenica la data di partenza. Il lavoro sulla barca era finito già da due giorni e stavamo facendo prove su prove per assicurarci della tenuta dell’imbarcazione in mare aperto. Proclamai il giorno seguente festa nazionale. Un giorno di riposo e svago ma anche di approvvigionamento di acqua e viveri necessari per la traversata. René aveva tracciato una possibile rotta. Se i suo calcoli erano giusti, avremmo fatto vela verso sud per incrociare una corrente che ci avrebbe condotto dritti dritti davanti alle coste della California, da dove eravamo partiti. Per l’occasione aprimmo la bottiglia di Whisky e feci distribuire una doppia razione di cioccolato ai bambini. Mangiammo allegramente il pesce cucinato alla brace da François e addirittura ci permettemmo una tazza di caffé liofilizzato, ultimo ritrovamento proveniente da un barattolo ermetico che Charles e Meg avevano rinvenuto in un fondale all’interno della baia durante una delle loro immersioni in apnea. Il clima festoso, la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile in quella situazione e un certo compiacimento per come avevamo affrontato gli eventi riuscì a togliermi il senso di angoscia profonda trasmessami da René. Oramai era questione di poco e una certa baldanza si era impadronita di tutti noi. La sera accendemmo fuochi. Sia la Riviera che il Porto brillavano come in una festa paesana. Qualcuno intonò un’allegra canzone e spontaneamente si formarono le coppie per una danza liberatoria. Lo stress fisico e psicologico di un mese trovarono sfogo in un’incontenibile gioia festaiola. Avevo fissato le ore 23 come termine dei festeggiamenti per non pregiudicare il riposo necessario ad affrontare le ultime incombenze dell’indomani.
Charles e Meg dopo un mese di duro lavoro e coabitazione comunitaria nel castello e dopo una danza particolarmente coinvolgente pensarono bene di appartarsi per godersi un po’ d’intimità . Anche i due ragazzi belgi si appartarono, bonariamente invidiati da Albert che un pensierino su Martine lo aveva fatto. La notte era soave. Il cielo splendente di stelle. Una leggera brezza si stava alzando come fosse una promessa per l’indomani. Giunse l’ora del riposo. Prima di coricarsi ognuno volle abbracciare e salutare i compagni. I due belgi rientrarono al Castello in orario, alle 23. Chiudemmo un occhio sul fatto che Charles e Meg non erano rientrati, e fu un grave cedimento della disciplina comunitaria. Steve, Roy e gli atri bambini dormivano profondamente dopo essersi scatenati in giochi e danze per tutta la sera con la complicità degli adulti finalmente liberi di sfogare ingenuamente tutta l’eccitazione per una brutta avventura che stava per finire. Il sonno ci sorprese beati e con la testa piena di pensieri allegri e piacevoli.
Misteriosa scomparsa
Fu verso le 2 di notte che un colpo secco contro la parete della grotta mi fece sobbalzare. Forse la premonizione di René era rimasta latente e quel rumore improvviso mi fece subito saltare e mettere in allarme. Gli altri continuavano a dormire, nessuno sembrava aver udito alcunché. Fu allora che mi accorsi dell’assenza di Charles e Meg e cominciai a preoccuparmene. D’accordo, potevano aver deciso di restare appartati tutta la notte, ma dentro di me avvertivo il pericolo, anche se continuavo a dirmi che forse era solo frutto di suggestione. Il rumore però c’era stato, ne ero sicuro e volli andare a vedere. Con l’occasione decisi di rompere gli indugi e sebbene rispettassi il desiderio di intimità di due amanti, la sicurezza della comunità mi era più preziosa. Svegliai Tony, il marinaio italiano e Frederick. Li misi al corrente dei miei timori ed anche loro concordarono sull’importanza di andare alla ricerca di Charles e Meg. Percorremmo il lido di S. Salvador, inutilmente. Stesso risultato al Canneto o sugli scogli della Riviera e del Porto. La situazione si era improvvisamente complicata. Dove mai potevano essere finiti? Decisi di dare l’allarme generale. In preda ad una agitazione crescente ci organizzammo in gruppi e ci dotammo di torce per cercare anche nei punti più nascosti. Le torce si rivelarono indispensabili considerando che nel corso della notte il tempo era cambiato in peggio. Le nuvole coprivano la luna privandoci di una preziosa fonte luminosa. L’aria si era fatta umida e fredda. Un vento fastidioso ci sferzava con folate gelide che ci facevano rabbrividire. Cercammo invano tutta la notte. Andammo a esplorare anche gli interni dei relitti incagliati nel porto. In una di queste occasioni Stefano il figlio più grande di Carlo ed Elisabetta urtò accidentalmente con il piede scalzo una vecchia lamiera procurandosi una profonda ferita al piede. La mattina ci colse con le torce ancora accese mentre battevamo l’isola nella speranza di ritrovare i nostri amici. Verso le 6 del mattino una pioggia fitta e fredda cominciò a scendere da un cielo che si era fatto buio e incombente. Decidemmo che non potevamo fare di più e che era indispensabile tornare alla grotta.
Ci disponemmo in cerchio intorno a un bel fuoco per scaldarci, dopo le tante ore passate al freddo. Qualcuno ebbe la buona idea di preparare un caffé caldo che ci aiutò non poco a vedere con razionalità gli ultimi avvenimenti. Ormai era inutile nasconderlo. Charles e Meg erano scomparsi per qualche causa ignota. Il primo problema da affrontare era quello di gestire la cosa con i figli di Meg che sopraffati dall’angoscia per la scomparsa della mamma dopo pianti e strepiti si erano chiusi in un mutismo allucinato, nonostante le donne e i bambini della comunità cercassero di tranquillizzarli e di essere loro vicini. Da quando ero stato svegliato di soprassalto fino al ritorno nella grotta non avevo mancato di osservare, non visto, il comportamento di Renè. Era stranamente calmo e contenuto. Aveva partecipato alle ricerche con impegno e non si era fatto problema ad entrare in mare o tra gli scogli per cercare nei punti più nascosti e inaccessibili. Solo ad un certo punto prima di rientrare al Castello mentre procedevamo affiancati, mi sussurrò all’orecchio questa frase, - credo proprio che il momento sia arrivato, sento che loro sono qui e vogliono ciò che gli spetta. In quel momento di tensione colsi la frase come una stupida superstizione e senza tante cerimonie lo mandai a quel paese, invitandolo piuttosto a darsi da fare per tenere su il morale del gruppo, che rischiava di cedere dalla depressione. Decisi anche di fare un piccolo discorso a tutti. Dissi che quanto era accaduto era grave e che però non dovevamo per forza pensare al peggio. Sicuramente una spiegazione doveva esserci. Per di più Charles e Meg erano due abili sub, conoscevano il mare e sapevano come cavarsela in situazioni di pericolo. Noi avevamo fatto tutto il possibile e dovevamo preoccuparci di rispettare il piano per la partenza. A maggioranza si sarebbe potuto decidere di prolungarne la data per offrire ai due dispersi ogni possibile opportunità di rientro qualora per ignoti motivi si fossero allontanati. I vari membri della comunità che fino a quel momento sembravano aver accusato pesantemente il colpo, dopo vari conciliaboli espressero il desiderio di mantenere il programma stabilito. Bisognava essere realisti. I dispersi avrebbero avuto ancora 24 ore di tempo per rientrare. Dopo questo termine bisognava ragionevolmente prendere atto che la loro scomparsa non sarebbe stata temporanea.