La zia Gerda
Di tanto in tanto preso da un impeto improvviso, socchiudeva gli occhi
e apportava rapido, con la matita, minuscole correzioni
di Ruggero Scarponi
Mentre ripassava con la matita alcuni tratti del disegno sul foglio di carta, Helmuth pensò a come sua zia fosse bella. Si fermò un istante per confrontare il ritratto con l’originale. Gerda, sua zia, era immobile, seduta un po’ di traverso sulla seggiola, con la gamba destra leggermente ritratta rispetto alla sinistra, una mano saldamente stretta intorno a un bracciolo e l’altra abbandonata lungo il fianco. Paziente, si teneva diritta sul busto facendo risaltare il bel collo che fuoriusciva dai morbidi volants della camicetta, abbottonata fin sotto al mento.
Helmuth si mise a osservare con pignoleria il gioco dei lunghi capelli di Gerda, sapientemente raccolti in una vaporosa crocchia dalla quale ricadevano, ribelli, lunghi riccioli biondi, di lato sulle tempie e sulle gote rosate.
Di tanto in tanto preso da un impeto improvviso, socchiudeva gli occhi e apportava rapido, con la matita, minuscole correzioni che poi osservava con attenzione prendendo il foglio a due mani e cambiando più volte l’angolo d’inclinazione. Poi tornava a fissare il volto di sua zia.
Aveva occhi scintillanti, buoni, illuminati da un riflesso vivace e una bocca morbida e sorridente. A Helmuth sembrava che la sua bellezza, fosse capace d’irradiarsi nella stanza, e da lì fuoruscire chissà fin dove. Egli stesso se ne sentiva inondato. Oh! Quante volte l’aveva ritratta, anche a sua insaputa, schizzandone furtivo il profilo su un blocco che portava sempre con sé. Gli piaceva la sua accondiscendenza, vi avvertiva qualcosa di materno, eppure sensuale. Helmuth sentiva di non riuscire a dominare completamente tale sentimento che lo turbava in modo misterioso e in lui cresceva l’inquietudine, man mano che procedeva nel ritratto, passando dalla matita ai colori mentre a poco a poco l’immagine di sua zia prendeva vita.
Ora che la luce solare indorava, nel tardo pomeriggio prossimo al tramonto, scorgeva negli occhi di lei un color vago. Dovette avvicinarsi più volte per costatare da vicino e cogliere l’infinitesima sfumatura, dal colore blu scuro ai toni dell’indaco, ma forse più simile a quello delle violette che stavano nel vaso sopra al davanzale della finestra.
Helmuth passava molto tempo a studiare. Frequentava, al mattino, un corso di pittura all’Accademia. Suoi compagni erano giovani figli della migliore borghesia cittadina. C’erano anche delle ragazze fra loro, sempre allegre e sorridenti che non mancavano di lanciargli occhiate allusive. Di loro Helmuth si schermiva con indifferenza. Passava poi molte ore in giro per musei e gallerie e fu proprio durante uno di questi tour che s’imbatté in un quadro che lo impressionò molto. Esso rappresentava in stile moderno un’allegoria della giovinezza. Vi era dipinto un soggetto non certo originale sebbene elaborato con rara maestria dall’ignoto pittore. Infatti, una targhetta posta sulla cornice lo dichiarava anonimo. E per di più, fatto inconsueto, non se ne conosceva la provenienza. Nel quadro era rappresentato un angolo di una stanza rallegrato da un semplice vaso di fiori. Helmuth fu colpito da un particolare. Il vaso era la copia esatta di quello con le violette in casa della zia. Forse una banale coincidenza. I fiori vi apparivano come sul davanzale, con un tono di colore che gli sembrò che mutasse dai toni blu scuro a quelli dell’indaco e del viola chiaro. Tuttavia per quanto si sforzasse, non riusciva a spiegarsi il titolo del quadro. Lo osservava minutamente ogni volta alla ricerca di un dettaglio chiarificatore ma proprio non riusciva a comprendere l’intenzione dell’autore.
- Allegoria della giovinezza…ma perché? – si ostinava Helmuth.
- Le violette…così belle e…così fatue, fragili, come la giovinezza. –
Disse una voce dietro di lui. Helmuth si girò di scatto. Era stata una ragazza a parlare, una custode della galleria. - Mi chiamo Ester – disse – non ho potuto far a meno di notare il suo interesse per quest’opera e quando ho sentito che si chiedeva il perché del titolo io…
Prima di rispondere Helmuth si soffermò con lo sguardo sul volto luminoso della giovane. Era di statura media con lunghi capelli neri ondulati e due occhi velati e languidi. Indossava una divisa blu composta da giacca, gonna e camicetta color bianco opaco. Era particolarmente attraente nel contrasto tra l’abito serio e l’espressione del viso un po’ maliziosa che la bocca leggermente socchiusa sapeva comunicare quasi inconsapevole. - Ha ragione Ester, - rispose Helmuth dopo un po’ - è una buona spiegazione la sua, forse la più ragionevole. Eppure … per un artista che ama nascondersi…
- Nascondersi?
- Sicuro, Ester. Quest’opera rivela una mano sapiente. Si vede subito. Se non sbaglio anche lei, frequenta l’accademia, vero?
- Sì, al mattino. Nel pomeriggio sono qui alla galleria.
- Dunque lei crede realmente che dietro al titolo, assegnato dall’artista, non ci sia altro che questa, tutto sommato, banale corrispondenza tra la giovinezza e la vita effimera di un mazzetto di viole?
- Non so, non ci avevo mai pensato.
- Già però io sono convinto che il pittore abbia nascosto la soluzione in qualche particolare. Ecco perché vengo qua. Sono sicuro che alla fine riuscirò a svelare il mistero.
Ester rise. - Se non ci fosse nessun mistero, allora, avrebbe perso un sacco di tempo!- Esclamò divertita.
Helmuth si voltò ancora una volta a guardarla. La giudicò graziosa e forse anche interessante. - Può darsi ne sia valsa comunque la pena – mormorò, sornione, a bassa voce.
Nei giorni seguenti s’incontrarono spesso. La ragazza che era più grande di Helmuth di due anni ne era segretamente innamorata da qualche tempo.
Era figlia di una ricca famiglia ebraica ed era consapevole che con Helmuth sarebbe stata solo l’avventura di un’estate. - Ho letto sul giornale – disse un giorno preoccupata – che presto potremmo trovarci in guerra con la Serbia. Sembra incredibile. Ora ce ne stiamo sdraiati a goderci il sole e la frescura del Danubio che scorre dolce come un vecchio saggio, in questo scorcio d’estate …E già domani forse, potresti essere chiamato…
- Se dovesse accadere – rispose assorto Helmuth – sarà una guerra rapida. E ti prometto che tornerò presto.
Ma Ester si era gettata su di lui per abbracciarlo con tutta se stessa. Si amarono in quelle settimane con foga. Furono sorpresi da una passione violenta. Ester, all’inizio della relazione disse un giorno: - Helmuth, se vuoi, prendi tutto di me.
E si dava con gioia incosciente. Una sera, approfittando che non c’erano altri visitatori, fecero l’amore persino su un divano della galleria. Erano come selvaggi, posseduti dal desiderio.
In quella circostanza Helmut scorse riflessa nel vetro di una finestra, nella penombra, un barlume della scena di cui era protagonista con Ester.
Si rabbuiò un istante scosso da un presentimento.
Poi venne la guerra e Helmuth fu chiamato alle armi.
Ester dovette seguire la famiglia che aveva preso la decisione di emigrare in America.
La loro storia finì così com’era cominciata.
Il giovane tornò dalla guerra quasi cinque anni dopo. Era molto cambiato, nel corpo e nello spirito. Aveva abbandonato la spensieratezza della gioventù ed era pervaso da una vena di pessimismo. Era stato ferito e zoppicava a una gamba.
Tornò nella vecchia casa di famiglia, oramai vuota. Di sua zia non aveva più notizie. A parte un vecchio domestico nella casa non c’era più nessuno. Si trovò solo. Mangiava da solo, passeggiava solitario il pomeriggio. Una domenica mattina, però, decise di andare alla galleria per vedere se almeno lì le cose fossero rimaste immutate.
Il custode all’ingresso lo informò che purtroppo non c’era la luce elettrica e i quadri erano scarsamente illuminati.
Mentre saliva faticosamente le scale per recarsi alle sale delle esposizioni notò come la sua figura, riflessa dai grandi specchi che incontrava sui pianerottoli, fosse invecchiata ben più dei cinque anni della sua assenza.
Percorse i lunghi corridoi della Galleria. Si soffermò accanto al divano dove si erano amati con Ester. Fu sopraffatto dal ricordo e dalla malinconia e non resistette all’impulso di accarezzarne un bracciolo con la mano.
Helmuth si sentì preso da una strana sensazione e si diresse nell’ala dove si trovava il quadro con le violette. Tutto era rimasto intatto. Il quadro era lì al suo posto. Si sedette su una sedia di fronte e prese a esaminare, calmo e attento il dipinto. Si rese conto, allora, di come la luce elettrica ne avesse alterato i contrasti che ora apparivano evidenti. Mai il colore delle violette era stato tanto luminoso. Aveva un tono deciso, se avesse avuto con sé la tavolozza lo avrebbe facilmente riprodotto. Per il resto il quadro era tale e quale a come lo ricordava. Poi cominciò, quasi per gioco, a seguire il profilo di un’ombra appena accennata nel riflesso di un vetro della finestra, dietro al vaso dei fiori. Ne percorse, un po’ a fatica, la linea morbida, cangiante che sembrava apparire e sparire a tratti, interrotta da bagliori luminosi e velature ombrose, finché sgomento non ne raggiunse il punto culminante, lì, semi-nascosti dall’impasto dei colori del fondo, come in bilico tra l’oblio e la memoria, trovò un po’ opachi, ma ancora bellissimi, che lo fissavano intensi, gli occhi di Gerda.