L’abbandono della montagna e delle alte colline ha avuto conseguenze
che si possono leggere nel paesaggio da segni diversi e in parte contraddittori.
Più forti, drammatici, quelli dell’alluvione del novembre 1994.
Alluvioni
Di Giuseppe Cocco Borzone de Signorio Sabelli
«Da anni ci ripetiamo sulle cause delle alluvioni. Senza l’uomo che l’accudisce la montagna diventa un deserto, l’erosione fa disastri. I vecchi erano analfabeti ma specialisti della manutenzione; curavano i corsi d’acqua, ne pulivano i letti, costruivano muri di pietre. Boschi e Pascoli erano garanzie di tenuta del suolo. C’è una responsabilità politica dell’alluvione; sta nella scelta deliberata dell’abbandono della montagna. Il danno è stato aggravato dalle opere artificiali, cominciando da quelle dell’Enel che hanno alterato il regime delle acque. troppi ruscelli canalizzati e troppo asfalto che fa aumentare la velocità del deflusso, troppe costruzioni sugli argini».
Intere colline slittate a valle portandosi dietro gli alberi, accumulati nel letto dei torrenti.
In basso si vedono ancora tronchi e rami e i lati delle strade ricostruite dopo essere state letteralmente cancellate.
Nei dintorni di Bra e di Ceva il fango aveva raggiunti i due metri di altezza.
Dighe di fango anche a Santo Stefano Belbo, dove il torrente aveva raggiunto il centro studi dedicato a Cesare Pavese.
Erano crollati ponti e viadotti moderni, case in cemento armato.
Il bilancio di quel novembre del 1994 era stato tremendo: 68 morti, 5.000 senzatetto, una prima stima di 10.000 miliardi di danni.
Invasi dal fango gli stabilimenti industriali, compreso quello della «Ferrero» rimesso in piedi a tempo di primato con la partecipazione straordinaria degli operai.
Un disastro prevedibile, se il comprensorio Alba-Bra era già da tempo segnato col più alto indice di rischio e la zona di Ceva era notoriamente sotto l’insidia del Tanaro, non più naturalmente regolato nelle sue piene: in basso privo di aree di esondazione su cui erano stati costruiti capannoni, case e strade asfaltate; in alto gonfiato a precipizio perché l’assorbimento del suolo era diminuito.
Nel novembre 1994 Alessandro Galante Garrone aveva detto: «ha ragione il mio amico Nudo Revelli. Abbiamo ammazzato la montagna ed ora non ci resta che il mondo dei vinti».
Sono passati 30 anni, il giudizio sulle responsabilità non cambia.
«L’alluvione è il risultato di una politica di sviluppo economico che ha considerato la montagna come un’entità trascurabile, mortificando le popolazioni che ne erano presidio, costringendole a scendere a valle».
Eppure esistevano gli studi sulla fragilità dei suoli e sulle caratteristiche delle precipitazioni in quell’area.
Gli storici ricordano che nel 1584 una piena del Tanaro strappò via 163 case, portandone i resti fino a Cherasco.
Nel nostro tempo la situazione è ben diversa.
Le stazioni meteorologiche consentono di prevedere le intense precipitazioni e di dare l’allarme (mancato nel 1994 con la dovuta tempestività).
Sono acquisite da anni conoscenze scientifiche che dovrebbero fare escludere progetti di ingegneri in zone a rischio.
Quelle dove i ponti non hanno resistito alla piena.
Commenta Revelli: «È questo uno degli aspetti più impressionanti dell’alluvione: la debolezza di opere di ingegneria presuntamente progettate e costruite senza tener conto della natura dei suoli e del rischio geologico aggravato dalle condizioni della montagna».
Cancellate in parte le ferite dell’alluvione, restaurati vigneti sulle colline dei vini pregiati, i segni più vistosi della trasformazione del paesaggio sono leggibili nelle zone popolate ed economicamente dinamiche.
Segni di una modernità espressa in forme banalmente ripetitiva: i capannoni industriali inseriti senza cura nel paesaggio rurale come i grandi depositi di prodotti confezionati, i condomini formato scatole con balconate, le villette frutto di infelici ibridazioni tra lo chalet e la palazzina in cemento armato con qualche richiamo vernacolare.
Revelli ne parla con disgusto: «La deturpazione è più evidente in basso, ma il turismo invernale accoppiato all’edilizia ha fatto scempi nelle alte valli. Limone è un vespaio di cemento. A Desertetto pretenziose ville contro i tetti di paglia. E poi l’inquinamento industriale, le cave, i cementifici. È il caso Bormida: lungo il fiume la nebbia s’impasta coi veleni».