#355 - 1 settembre 2024
AAAAA ATTENZIONE questo numero resterà in rete fino alla mezzanotte del 30 ottobre quando lascerà il posto al numero 357. - BUONA LETTURA - ORA ANTICA SAGGEZZA - Gli angeli lo chiamano piacere divino, i demoni sofferenza infernale, gli uomini amore. (H.Heine) - Pazzia d'amore? Pleonasmo! L'amore è già  in se una pazzia (H.Haine) - Nel bacio d'amore risiede il paradiso terrestre (Lord Byron) - Quando si comincia ad amare si inizia a vivere (M. de Scudery) - L'amore è la poesia dei sensi ( H. De Balzac) - Quando il potere dell'amore supererà  l'amore per il potere, sia avrà  la pace (J. Hendrix)
Cinema

I dimenticati - Una iniziativa di "Diari di Cineclub"

Gianni Agus

Diari di Cineclub - I dimenticati 111 Gianni Agus

DI

Virgilio Zanolla

Gianni Agus

Mi sono sempre domandato una cosa: quando due attori interpretano una scena comica, e il canovaccio lascia spazio all’improvvisazione, come fa la ‘spalla’ a non ridere? Si ha un bel dire “È il mestiere”: fossi stato al posto del bravissimo Gigi Reder, nella famosa scena del film Vieni avanti, cretino! di Luciano Salce (1982), dove Lino Banfi si presenta in uno studio dentistico credendo si tratti di un bordello, non sarei mai stato in grado di trattenermi, sia nel pronunuciare le battute sul «quanto mi tira», sia nell’assistere alla reazione stupefatta del mio interlocutore.

Ebbene, il campione indiscusso del «mestiere» - ovvero della professionalità - in situazioni come quella appena descritta è un attore che ha fatto da ‘spalla’ a colleghi del calibro di Totò, Peppino De Filippo, Raimondo Vianello, Paolo Villaggio, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Macario, Carlo Dapporto, Gino Bramieri, Carlo Campanini, Paolo Panelli, Lino Banfi, Pippo Franco, Franchi e Ingrassia e altri ancora, senza mai tradire il minimo indizio di giovialità davanti alle loro battute, e senza mai mostrare alcuna sudditanza psicologica: sto parlando di Gianni Agus. Il segreto, lui disse a Paolo Ferrari nel corso di un incontro-intervista a Ieri e oggi (1975), è che «bisogna crederci. Perché se ci credo io, ci credono anche gli altri». A dirla tutta, definire Agus una ‘spalla’ suona ingiustamente riduttivo, perché in qualsiasi scena comica, al suo cospetto ogni interlocutore, a tratti, diveniva a sua volta ‘spalla’; egli si è sempre mostrato all’altezza del collega a cui porgeva la battuta, tanto che, sebbene nel panorama dei nostri attori del secondo Novecento non sia considerato come meriterebbe il suo talento, sul web si è preso la rivincita: chi non mi crede, legga i commenti degli spettatori nei molti video in cui appare in scenette con De Filippo-Pappagone, Villaggio-Fracchia, Vianello, Totò e via dicendo: lì i meriti artistici vengono sempre equamente ripartiti...

Giovanni Battista (detto Gianni) Agus, era nato a Cagliari il 17 agosto 1917, da una famiglia di avvocati (ma dal fratello Giorgio ebbe nel ’49 il nipote Gianfranco Agus, attore e conduttore televisivo). Nella città natale, dove studiò Economia e Commercio e si diplomò ragioniere, intraprese le prime prove attoriali recitando nella compagnia filodrammatica della Manifattura Tabacchi. Non ancora ventenne si trasferì a Roma: qui seguì i corsi del neonato Centro Sperimentale di Cinematografia, diplomandosi nel ’38. Nel frattempo aveva trovato spazio nella compagnia Merlini-Cialente, prendendo parte, in un piccolo ruolo, alla prima rappresentazione italiana del dramma Piccola città di Thornton Wilder; subito dopo, e per cinque anni, lavorò in quella del grande Ruggero Ruggeri, del quale - pare - fosse incaricato anche di lucidare le scarpe di scena (poco male, se si considera che il sommo Haydn fece altrettanto per quelle dell’operista Niccolò Porpora). Il suo esordio davanti alla macchina da presa avvenne nello stesso ’38, in una comparsata nel biografico Giuseppe Verdi di Carmine Gallone; a seguire, quello stesso anno figurò nelle commedie Inventiamo l’amore di Camillo Mastrocinque, nel ruolo di un invitato alla festa, e I figli del marchese Lucera di Amleto Palermi, con Armando Falconi, Gino Cervi e Sergio Tofano, e nel ’39 in altre due commedie, Napoli che non muore dello stesso Palermi e Io, suo padre di Mario Bonnard.

Negli anni più duri della guerra l’attività del Nostro fu ridotta al minimo: egli si espresse quasi solo sulle tavole del palcoscenico, che costituirono per lui una grande scuola formativa; fece di tutto, passando con estrema duttilità dal teatro di prosa al cabaret, al vaudeville, al varietà, alla rivista, all’avanspettacolo: insomma, da Cialente e Ruggeri a Michele Galdieri, Totò, Anna Magnani, Wanda Osiris... Particolarmente felice fu l’incontro con quest’ultima, la regina della rivista italiana, che dopo le esperienze con Macario e Dapporto nel ’46 entrò nella compagnia di Garinei e Giovannini imponendosi con spettacoli che hanno fatto la storia del teatro leggero e del costume del nostro dopoguerra, quali Si stava meglio domani (’46-47), Domani è sempre domenica (’47-48), Grand Hotel (’48-49), Sogni di una notte di quest’estate (’49-50), Il diavolo custode (’50-51) e Gran Baldoria (’52-53). Non ancora trentenne, lavorando con lei e altri grandi protagonisti, come Rascel, Gianni visse da interprete la stagione dorata del nostro varietà, nei favolosi allestimenti allora nel loro massimo fulgore. Con la Osiris, al secolo Anna Maria Menzio, avviò una lunga relazione sentimentale destinata a chiudersi soltanto nel ’52, quando, innamoratosi di Liselotte (Lilo) Weibel Walter, un’avvenente ballerina austriaca che lavorava nella compagnia, eletta qualche anno prima Miss Austria, la sposò e nel ’59 ebbe da lei il figlio David. La Weibel fu anche attrice, apparendo in alcuni film con Totò; con lei, nel ’53, il Nostro prese parte al varietà di Billi e Riva Caccia al tesoro, e nel ’54-55 a Giove in doppio petto di Garinei e Giovannini, la prima commedia musicale italiana, accanto a Dapporto (Giove) e Delia Scala (Lia). In questo fortunatissimo allestimento Gianni, che impersonava il dio sotto le spoglie mortali dell’onorevole Sartori, marito di Lia, ottenne un lusinghiero successo personale; ma nell’omonimo film, diretto da Daniele D’Anza nel ’54 e interpretato dagli stessi protagonisti dell’opera teatrale, la sua parte fu appannaggio di Dapporto, che si produsse nel doppio ruolo di Giove in cielo e sulla terra.

Erano gli ultimi anni della grande stagione del varietà, perché il gusto degli spettatori stava rapidamente cambiando: all’ammaliante Osiris, che affiancata dai suoi boys, cantando suadenti motivi scendeva da uno scalone come una Venere in terra, era subentrata la vivacissima Delia Scala, cantante, attrice e fantastica ballerina, che le si poneva in netta antitesi, nel segno prepotente dei tempi nuovi. Gianni intanto aveva ripreso col cinema: apparendo in commedie all’italiana, musicarelli ed esempi di ‘neorealismo rosa’, non senza qualche esito di maggiore incisività, come Le miserie del signor Travet di Mario Soldati (’45), tratto dall’omonima commedia di Vittore Bersezio, che lo vide nel ruolo di Velàn accanto a Carlo Campanini, Gino Cervi, Alberto Sordi e Vera Carmi, la parte del conte d’Almaviva in Figaro qua, Figaro là di Carlo Ludovico Bragaglia (’50), rivisitazione in chiave comica della commedia di Beaumarchais, con Totò nel ruolo di Figaro, Rascel in quello di don Alonso e Isa Barzizza in quello di Rosina, e il coraggioso dramma sentimentale In amore si pecca in due di Vittorio Cottafavi (’54), con Giorgio De Lullo, Cosetta Greco, Alda Mangini e Vera Carmi. Sul set, talvolta Gianni interpretava parti e situazioni ispirate dalle scenette già rappresentate in teatro nell’avanspettacolo, lavorando magari con gli stessi colleghi.

Attore completo e carismatico, grazie alla forte presenza scenica e alla bella voce venne chiamato a lavorare anche in altri settori dello spettacolo, sicché presto divise equamente il suo tempo tra teatro, cinema, radio e tv. In radio prese parte a trasmissioni di successo come Bis (’55), Il gonfalone (’59), Caccia grossa (’66), Gran varietà (’66-79), Piccola storia dell’avanspettacolo (’76), La domenica delle meraviglie (’92), alla televisione, che gli diede una straordinaria popolarità, cominciò nel ’54 prendendo parte nella riduzione televisiva di operette come Al cavallino bianco di Ralph Benatzky e Il paese dei campanelli di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato; seguì con le pubblicità nei Carosello, e quale conduttore, presentando nel ’58, in coppia con Fulvia Colombo, l’ottava edizione del Festival di Sanremo, quella che vide la vittoria di Domenico Modugno e Johnny Dorelli con la canzone Nel blu dipinto di blu. Ma sempre più spesso, vi si affermò come attore, in sceneggiati e serie tv (La donna di fiori, ’65; Il conte di Montecristo, ’66; I fratelli Karamazov e Una tranquilla villeggiatura, ’69; L’amico delle donne, ’75; La granduchessa e i camerieri, ’77; Tamburi nella notte, ’82), in show, commedie e spettacoli di varietà (Canzonissima, ’58; la parodia televisiva Romeo e Giulietta di Franco Seghizzi, ’64, dove il Nostro vestì i panni di Mercurzio; Dal primo momento che ti ho visto, ’76; Bambole, non c’è una lira!, ’77; Giochiamo al varieté, ’80; Stasera niente di nuovo, ’81; Al Paradise, ’85, dove prese parte a una parodia dei Promessi sposi accanto al Quartetto Cetra, interpretando Don Rodrigo; Senator, ’92). A renderlo una figura imprescindibile nella comicità nostrana furono soprattutto i sapidi sketch interpretati con alcuni ‘mostri sacri’ di cinema e televisione, da Totò a Carlo Dapporto, da Peppino De Filippo a Paolo Villaggio, da Vianello a Franco e Ciccio. Chi non ricorda le sue espressioni tra lo sbigottito e l’irritato davanti agli «Eqque qua» e ai «Piriché» di Pappagone in Scala Reale (’66), i suoi veloci cambi di umore e le sfuriate da capufficio al cospetto dell’impedito Giandomenico Fracchia in È domenica ma senza impegno (’69), ne Il cattivone (’70), nella serie Giandomenico Fracchia, sogni proibiti di uno di noi (’75), e più tardi anche sul grande schermo, in Fracchia la belva umana di Neri Parenti (’81)?

I decenni Sessanta-Ottanta furono per lui ricchi di soddisfazioni professionali, a partire dal cinema: nel ’61 Luciano Salce lo volle ad impersonare un gerarca repubblichino nel suo bellissimo Il federale, e Sergio Corbucci gli affidò il ruolo dell’esaltato podestà Pennica ne I due marescialli, accanto a Totò e Vittorio De Sica; con Totò il Nostro lavorò altre cinque volte: in Totò di notte n° 1 (’62) e Totò sexy (’63), diretti entrambi da Mario Amendola, in Totò e Cleopatra di Fernando Cerchio (id.), ne Le motorizzate di Marino Girolami (id.) e in Totò Ye Ye di Daniele D’Anza (’67). Tra i molti altri film, apparve inoltre ne L’immorale di Pietro Germi (’67), in Mordi e fuggi di Dino Risi (’72), nel lirico e drammatico Il venditore di palloncini di Mario Gariazzo (’74), in Camera d’albergo di Mario Monicelli (’81), dove interpretò se stesso, e nel fortunatissimo Culo e camicia di Pasquale Festa Campanile (id.). L’ultimo suo ruolo davanti alla macchina da presa fu quello del padre della protagonista in Matilda di Antonietta De Lullo e Giorgio Magliulo (’90).

L’attore, regista, scrittore e sceneggiatore britannico Peter Ustinov, che parlava fluentemente varie lingue tra cui l’italiano, avendo ripreso e ultimato il libretto dell’opera Una prova del matrimonio, tratta da una commedia di Gogol’, di cui nel 1868 il compositore russo Modest Mussorgsky musicò il solo primo atto, intenzionato a rappresentare a Milano quest’inedito allestimento - un misto di prosa e canto - aveva riunito una compagnia con Franca Valeri, Ottavia Piccolo, il nostro Agus, Daniele Formica, il tenore Ezio Di Cesare e il baritono Giulio Fioravanti, stabilendo di prender parte alle prime due recite, facendo poi subentrare nel suo ruolo l’attore cagliaritano; ma quando scoprì la bravura di quest’ultimo cambiò idea e assegnò volentieri la parte soltanto a lui.

Interprete completo e versatile, Agus non trascurò neppure il doppiaggio, prestandosi in più di un’occasione a conferire a qualche personaggio la sua specialissima voce ricca di sfumature e vibrazioni, come fece ad esempio nel ’78, doppiando Jacques Herlin nella miniserie tv Il furto della Gioconda di Renato Castellani. Né si dimenticò del teatro di prosa e dei classici, coi quali aveva esordito in palcoscenico: affrontando con misura e grande sensibilità, soprattutto nei suoi ultimi anni, personaggi molto impegnativi quali Tiger Brewn ne L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht diretta da Giorgio Strehler nel ’73, il Conte ne I giganti della montagna di Luigi Pirandello, nell’allestimento di Mario Missiroli nell’80, e Lamberto Laudesi in Così è (se vi pare) ancora di Pirandello, per la regia di Giancarlo Sepe nell’83, e il protagonista ne Il matrimonio del signor Mississippi di Friedrich Dürenmatt, per quella di Marco Parodi (’88). Di queste sue prestazioni attoriali andava giustamente fiero, fino al punto di prendersi garbatamente in giro, come quando, in un celebre sketch con la coppia Vianello-Mondaini in Stasera niente di nuovo (’81), nella parte di un potente funzionario Rai dalla risata nervosa e stentorea, caldeggiando un maggior coinvolgimento nel programma di quel «grande attore» che è Gianni Agus, definito «versatile», «eclettico» e «splendido» ricorda «che ha dimostrato di saper passare dal teatro leggero al teatro drammatico come ne I giganti della montagna, con la stessa identica bravura». Ma la rivista e l’avanspettacolo erano sempre nel suo cuore: non solo ebbe a rievocarne i fasti sia in radio che in tv, altresì, in un’ospitata al Maurizio Costanzo Show, sollecitato dal conduttore si divertì a insegnare a un giovanissimo Christian De Sica come a fine spettacolo si sfilava in passerella.

Colpito da infarto, Gianni Agus si spense improvvisamente il 4 marzo 1994 nella sua casa romana, all’età di settantasei anni, sei mesi e quindici giorni. Le sue esequie si tennero tre giorni dopo nella chiesa di Sant’Agnese. Le sue spoglie riposano a Roma nel cimitero Flaminio. In un’altra chiesa, la basilica di Santa Teresa d’Ávila in corso Italia, una targa ne ricorda l’attività di benefattore. Poco più di otto mesi dopo, l’11 novembre, si spegneva a Milano, ottantanovenne, Wanda Osiris.

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