Colori di Cielo e di Terra
Luigi Caflisch
L'Arte e il Sacro: Una proposta pittorica nuova e antica
Di Mario Bertin
Luigi Caflisch è un artista anomalo nel panorama pittorico oggi dominante (nei casi in cui si possa ancora parlare di pittura).
La sua pittura non è legata e non è ascrivibile a particolari correnti, non si ispira alle mode, non rimanda a teorie o modelli, o a imprecisate quanto vacue sperimentazioni, capaci soltanto di consegnarsi a una qualunque percezione emotiva. Essa è profondamente radicata nella sua storia personale, che talvolta potrebbe apparire addirittura estranea ai grandi o piccoli eventi dell’attualità e più attenta invece alle lezioni che vengono dal passato, ma senza che mai ciò rappresenti una qualsiasi regressione perché sempre aperta contemporaneamente sul futuro.
Caflisch, inoltre, sfuggendo al dibattito sulla figurazione, che sembra non interessarlo, costruisce immagini sulla base di un suo pensiero e di una visione che nasce nella sua sfera interiore. Ciò non nasce da alcun atto di rifiuto o da una costrizione o pregiudizio intellettuale, ma da una sostanziale libertà interiore, che vuol dire sapere a quale filo si è legati e di là muoversi per costruire quello che si vuole, sollecitando lo “spettatore” ad abbandonare la sua veste di spettatore per riposizionarsi ad ogni istante di fronte al reale, e cioè – precisamente - a rinascere.
Ciò, in qualche misura, può far luce e spiegare il suo interesse per il sacro. Premesso che ogni vera arte, in quanto tale, è sacra per il suo potere di rinviare oltre se stessa ad una esperienza che la trascende, in un processo analogo e parallelo a quello della religione, la ricerca di Caflisch è più complessa nella sua articolazione. Essa, infatti, parte dalla scelta di proporre immagini e contenuti sacri per approdare, nel periodo più recente, all’arte sacra nella sua forma liturgica, cioè ad un’arte, secondo la definizione che ne dà A. Dall’Asta, destinata ai luoghi del culto con l’intenzione di orientare religiosamente l’uomo verso Dio. Un’arte, dunque, intesa non come fine a se stessa (“l’arte per l’arte”), ma in funzione della comunità, e cioè implicitamente capace di illuminare la mente, di creare idee, di emozionare, di favorire la devozione e il rispetto per i valori morali. Un’arte, insomma, che sarebbe piaciuta a Tolstoi e a Jacques Maritain, i quali ritengono che la vera arte non può essere estranea e priva di intenzionalità morali.
I quadri, così impostato il discorso, vivono e respirano ed essendo se stessi, possono essere anche altro. Guardando i quadri “religiosi” di Caflisch, si accende dentro colui che li guarda una piccola luce viva che anima quella rimanenza di religiosità che dorme in ciascun uomo e nelle cose e che reclama di essere accolta in un movimento di continua trasfigurazione.
Questi aspetti, come abbiamo accennato, sono particolarmente presenti e significativi nelle mostre recenti dell’artista, le quali, con impostazioni diverse, sono state allestite tutte in luoghi di culto: a Roma, nell’antica basilica romanica di S. Lorenzo in Piscibus (2016), nella basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri (2016), e nella chiesa parrocchiale di S. Bonaventura nella periferia della città (2017); e nella ex chiesa dei santi Filippo e Giacomo di Todi (2016).
L’allestimento più interessante e innovativo è stato quello della mostra nella parrocchia romana di S. Bonaventura, in quanto rispondeva a preoccupazioni liturgiche (e cioè funzionale alla celebrazione del rito e a favorire la preghiera dei fedeli), mentre negli altri casi la mostra utilizzava il luogo sacro come semplice spazio espositivo. La mostra a S. Bonaventura è stata possibile per l’interesse del giovane parroco, aperto ed intelligente, a far dialogare arte e religione e, a partire da questa esperienza, ad avviare un dibattito nella sua comunità sui linguaggi dell’arte contemporanea nella pratica liturgica.
A questo punto, mi sembra utile mettere in luce e sottolineare le caratteristiche dell’intreccio secondo il quale si è sviluppata la presenza del sacro nella produzione pittorica di Luigi Caflisch.
Nella fase iniziale troviamo alcune apparizioni, per lo più nella forma di opere grafiche (incisioni all’acquaforte), di illustrazioni di episodi evangelici o di vite di santi. Ricordo, in particolare, per la loro intensità narrativa e per la loro qualità formale, un Battesimo di Gesù, una Resurrezione e un san Francesco, in cui la figura del mite Poverello d’Assisi è collocata dentro un paesaggio umbro-toscano di grande espressività nel tratteggio e nell’equilibrio del chiaroscuro. Queste opere si collocano sulla linea dell’iconografia tradizionale, influenzata da richiami espressionistici piuttosto evidenti.
Quadro bifronte donato a Papa Francesco in udienza privata il 6 maggio 2024
In un secondo momento nell’opera di Caflisch appaiono immagini sacre riprodotte nella loro collocazione originale (come pale d’altare o come cimase d’architetture religiose). Particolarmente interessanti di questo periodo sono le storie di S. Agata nelle rappresentazioni barocche di Catania (dove Caflisch ha soggiornato per un certo tempo) e soprattutto la serie degli angeli della Passione di Bernini sul ponte di Castel S. Angelo a Roma. Non si tratta ovviamente di studi accademici, ma di sintesi interessanti tra figurazione e impulso creativo, tra soggetto (gli angeli sono le creature “sempre terribili” di Rilke alla ricerca di una forma tra le infinite a loro possibili che li faccia esistere) e impulsività dell’atto di dipingere, che governa l’azione, la quale è sì attenta al soggetto, ma soprattutto al sentimento che esso fa nascere nell’animo dell’artista. In questo processo le immagini dipinte finiscono per offrirsi come metafore della realtà e, contemporaneamente, dell’artista. In esse non c’è traccia di concettualizzazioni di sorta o di intenti mimetici, ma esclusivamente della sua esperienza esistenziale. Anche il colore, in questi come negli altri dipinti di Caflisch, abbandona la sua funzione rappresentativa per diventare strumento espressivo di una visione interiore, di un modo di sentire, di una immaginazione poetica, e forse anche di un modo di credere. Questa preoccupazione, peraltro, era la stessa che già presiedeva alla serie di riproduzioni a pastello delle sculture greche e romane presenti nella Centrale Montemartini di Roma (una delle sedi del museo archeologico della capitale), in cui l’obiettivo era di dar loro vita attraverso la vibrazione del colore, in una operazione simile a quella intrapresa a Napoli dal fotografo Mimmo Jodice , con esiti sorprendenti. In queste opere il colore è un colore nascente.
La fase più recente della ricerca pittorica di Caflisch, come abbiamo accennato, propone episodi evangelici (particolarmente significativi sono l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe e la Trasfigurazione) ad uso dichiaratamente liturgico. In questi dipinti appare l’intenzione di condurre lo “spettatore” in una specie di campo magnetico che lo attrae labirinticamente verso il fondo di sé, in un luogo in cui affiora (magari confusamente) il richiamo a valori assoluti.
L’artista che sembra ripiegato su stesso, in realtà apre un dialogo con il mistero al quale invita lo “spettatore”, nella convinzione che sia proprio il mistero a spiegare la realtà più che l’evidenza. E, in questo invito a vedere una cosa che non si vede, chi guarda abbandona l’estraneità dello spettatore per diventare un interlocutore.
In questo contesto, il discorso pittorico appare scarno, fatto di pennellate veloci, istintive ed essenziali, alternate a vaste campiture in cui sembra che il sentimento si coaguli, si condensi in colore non privo di significati.
La pittura di Caflisch non è mai descrittiva, ma allusiva, rivelatrice di una realtà impossibile da rendere visibile e di questa stessa impossibilità.
Una pittura impastata di luce e delle sue trasparenze (si veda, per fare l’esempio più evidente, la Trasfigurazione), alla quale non è estranea l’influenza degli artisti della Scuola romana.