I versi “iconopoietici” di Dante Alighieri.
Un’indagine sui temi dell’aldilà e del sacro nell’ultimo libro di Marcello Fagiolo.
L'immaginazione della Commedia
l'ombra di Fiorenza e il Paradiso di Roma-amor
Visione di Dante
Di Marcello Fagiolo
Quattro Emme Edizioni
Marcello Fagiolo ha pubblicato, per i tipi di Quattroemme, un testo affascinante dedicato al padre della lingua italiana, ma non come letterato, bensì come propulsore d’immagini che hanno influenzato l’arte di tutti i tempi. Il libro, illustrato da 700 immagini, s’intitola Visione di Dante. L’immaginario della Commedia, l’ombra di Fiorenza e il paradiso di Roma-Amor.
Non deve certo essere dimostrato - scrive Marco Bussagli - che la Divina Commedia ha – in un sol colpo – assolto almeno a due funzioni: rendere concreta e tangibile l’idea dell’Aldilà e stimolare la riflessione filosofica per immagini intorno al tema del sacro. Dico per immagini perché, come l’autore dimostra magistralmente, Dante non si abbandona alla descrizione astrusa di concetti, ma riconduce la speculazione teologica a icone; come se si trattasse di una Biblia pauperum sorprendente dove, però, sono le parole a descrivere figure allegoriche in grado di spiegare in maniera immediata assunti filosofici e teologici che, altrimenti, necessiterebbero di pagine e pagine di note e di chiose.
In altri termini, se mi si permette un neologismo, i versi di Dante sono “iconopoietici” e Marcello Fagiolo ce ne spiega i meccanismi con quella acribia e quell’acutezza intellettuale che solo i grandi Maestri possono permettersi. Del resto, giustamente, l’autore ricorda quanto Paola Manni ha scritto nel suo saggio sulla lingua dantesca, rilevando «che occhio è il sostantivo che ha in assoluto la più alta frequenza nella Commedia, con 263 occorrenze e parallelamente fra i verbi più ricorrenti abbiamo quelli della medesima sfera semantica: vedere, rivedere, guardare, mirare…».
Il punto d’inizio che ci introduce a questa particolare visione del poema risiede nella relazione fra la città di Firenze e l’idea del giardino, nell’ambito della quale, poi, la costruzione di S. Maria del Fiore divenne il segno più bello e tangibile di quella grande stagione fiorentina in cui la Repubblica provava a moralizzare le sue immense ricchezze, frutto delle varie attività di speculazione finanziaria e commerciali, trasformandole nella preghiera di marmo sbocciata proprio al centro della città-giardino di cui diveniva l’ornamento più bello.
Dante non vide mai la costruzione di Arnolfo e meno che mai quella ampliata di Talenti (completata poi con la cupola di Brunelleschi, ma la decisione di sostituire l’antica chiesa di Santa Reparata con quella nuova, datata al 1293, era ben nota al poeta che assunse la carica di priore (insieme ad altri sei colleghi) nel bimestre luglio-agosto 1295.