Rileggere per immagini
le trame della vita nel tempo
Il Natale veste di blu, bianco e rosso
di Margherita Lamesta
A trent’anni dall’uscita in sala di Film Blue (1993), seguito l’anno dopo da Film Blanc e Film Rouge è utile ricordare cosa si celebra con la famosa trilogia Trois couleurs: Bleu, Blanc, Rouge, del Maestro Krzysztof Kieślowski, che ha dedicato le tre pellicole alla bandiera francese e al motto rivoluzionario più famoso di tutti i tempi.
Già dal titolo si comprende quanto il regista avochi all’immagine una forza espressiva tale da trovare la sua consacrazione soltanto nell’arte cinematografica, la quale rispetto alla fotografia arricchisce il linguaggio dell’immagine aggiungendovi il movimento.
Al grido di libertà, uguaglianza, fratellanza – i progenitori del mondo moderno – le pellicole
si legano l’una all’altra attraverso una carrellata di frame dal tratto marcatamente esistenzialistico,
che fanno crescere nello spettatore una riflessione profondamente etica.
Perciò, a chiusura di anno può tornare utile provare a fare un bilancio degli atroci fatti di
cronaca, aprendoci a una riflessione analitica molto particolare, quella condotta dallo sguardo
rivelatore e impietoso del cinema del regista di Varsavia.
Dolore e musica s’intrecciano in Film Blue, il primo della trilogia, interamente affidato al
talento di Juliette Binoche, Coppa Volpi a Venezia 1993 e quattro anni dopo premiata
dall’Academy per Il paziente inglese di Anthony Minghella.
La libertà rappresentata dal colore blu ci arriva epurata di ogni connotazione politica.
Kieślowski sceglie di concentrarsi sulla persona, infatti, e sul suo diritto di vivere il dolore a modo
suo, anche fuori dagli schemi più ovvi e consueti.
Niente è importante - recita Julie, fermamente intenzionata a strapparsi di dosso il passato
con ogni mezzo.
Sospesa tra l’elaborazione di un lutto e il suo rifiuto, la protagonista crede di esorcizzare la
tragedia distruggendone le prove, pur di fuggire da se stessa, senza considerare che è soltanto
riconciliandosi con la realtà e aprendo le porte all’amore che si è davvero liberi.
Julie ritorna alla vita attraverso la paura – la nidiata di topi in una stanza simile a un
magazzino, i passi sulle scale del condominio dell’uomo picchiato per strada - oppure attraverso
l’ebrezza di un momento di sesso rubato all’atarassia di un’esistenza priva di emozioni, ormai.
Il blu pervade le soggettive cariche di simbolismi. Entra nella testa della protagonista per
seguirne sguardi e pensieri, a cominciare del riflesso sulla pupilla all’inizio, in ospedale.
S’identifica con l’acqua della piscina, nella quale la giovane s’immerge per ritrovare la libertà di
confondervi le lacrime, e va a rifrangersi sul lampadario, probabilmente di sua figlia, unico
elemento risparmiato al distacco, che tradisce un desiderio inconscio di riconciliazione proprio con
quella parte consegnata con forza all’oblio.
L’attrice s’immola nel film, servendosi dei silenzi, i quali spadroneggiano nella sua testa e,
così facendo, raggiungono la testa dello spettatore, rammentandogli i primi piani struggenti della
Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer.
Sono il Caso e il Destino a comandare l’esistenza e a generare la Rinascita in Kieslovski.
Grazie all’incontro con l’altro, anch’esso casuale, il processo di distacco dal dolore agisce come un
boomerang e infonde nella protagonista il coraggio di uscire dalla prigione della sua mente, non
appena sarà pronta a riconciliarsi con le verità nascoste del passato.
Di fronte alla vita che cresce in grembo all’amante del marito, perito nell’incidente insieme
a sua figlia, il futuro riconquista il suo valore originario. Sulle crepe di un’esistenza che abdica,
un’altra sboccia e riscatta l’oggi per guardare al futuro con rinnovata fiducia. Memorabile l’ellissi
sulla collanina con il crocifisso. Al maestro basta poco, due sguardi, un gesto e una soggettiva per
veicolare allo spettatore l’autenticità dell’amore che lega lo stesso uomo a due donne rivali.
Non siamo di fronte a una prima donna e una comparsa ma a due vittime di un destino a specchio, in
ogni caso crudele, che si prendono la libertà di allearsi per riscattare il loro futuro, accogliendo al
meglio la nuova vita in arrivo.
La musica - l’incompiuta del marito composta per l’Unificazione dell’Europa - detta il ritmo
del film, trascende la storia per superare i confini dello schermo, evidenziando il distacco di Julie da
se stessa, prima, e il suo ritorno alla vita, poi.
Recuperato il contatto con la realtà attraverso la forza della vita e dell’amore, il cineasta è
pronto per dedicarsi al secondo capitolo della triade, Film Blanc, la pellicola sull’uguaglianza.
Tornano in primo piano i toni filosofici della sua opera. Il tema apparente è la morte e il colore
bianco la scelta formale per meglio interpretarla: l’unico colore che riflette tutti i colori dell’iride,
perciò un altro straordinario esempio di equità. La morte, tuttavia, è soltanto un mezzo di cui
l’autore si serve per parlarci di un’altra forma di uguaglianza, quella esercitata dal sentimento di
vendetta che, proprio come la morte, sa, al suo pari, mettere tutti sullo stesso piano.
Un prologo di disuguaglianza divide due coniugi, a cominciare dalla lingua: francese lei,
polacco lui. Intenzionata a divorziare, la moglie sessualmente insoddisfatta, a conservare l’unione,
il marito innamorato. L’uguaglianza arriva subito, sin dal processo iniziale, espressione
dell’incomunicabilità tra i due coniugi.
Siamo di fronte a un revenge-movie dai toni raffinati e scarni, che ricorda le atmosfere del
Decalogo. Non solo. Vi si legge anche uno spietato ritratto della Polonia dopo la caduta dell’URSS
e della complessità del sentimento amoroso. Esplorando fino in fondo gli stati d’animo, il regista ne
scruta varianti e sfumature senza dimenticare neppure sentimenti importanti come l’amicizia, altra
protagonista della pellicola.
Sono il bianco e i colori chiari a dominare le scene. Bianchi i cieli, i volti dei protagonisti e
il vestito da sposa di Dominique-Julie Delpy, che si perde nelle luci dell’orizzonte. È una
manifestazione angelica proiettata soltanto nella testa di Karol-Zbigniew Zamachowski, questa, ma
anche un’immagine unilaterale e ossessiva che gl’impedisce di comprendere la sua sposa nella sua
complessità.
Una volta morto, Karol trova la forza per rinascere a se stesso sulle orme di una personalità
nuova, ora potente anche socialmente. Con il coraggio ritrovato riesce a vedere ciò che il mite
omicciolo di prima, ordinario e mediocre, non poteva essere in grado di vedere. Ed ora è pronto a
mettere in atto il suo diabolico piano di vendetta: un coup du théâtre da maestro inferto al carnefice
dal viso d’angelo.
Giunti a questo punto, il grande autore polacco è pronto per alzare il sipario sull’ultimo atto
della trilogia: Film Rouge, la pellicola sulla fratellanza, considerata anche il testamento artistico del
cineasta.
Ossessivo e onnipresente, il rosso colora l’intera opera. Dirompente e passionale, il colore
della vita lega i tre lavori, riunendo i primi due con l’ultimo, non soltanto idealmente. L’opera ha un
slancio vitale proiettato talmente tanto avanti da riuscire, con la sua sola forza, ad aprire uno
squarcio spaziotemporale sul futuro, addirittura. Tornano centrali il Caso e il Destino. Insieme a
passato e presente queste due Parche mettono in relazione i personaggi, i punti di svolta, le azioni,
che trovano finalmente la loro sintesi ideale in quest’ultima pellicola e terza Parca.
Altruismo ed egoismo si confrontano. Il regista se ne serve per parlarci di fraternità, l’ultimo
sentimento ricordato dal motto rivoluzionario francese. E lo fa partendo dall’amore, il sentimento
rosso per antonomasia.
Valentine-Irene Jacob, la studentessa-modella, che si muove per tutto il film
dentro una bolla di grazia percepibile immediatamente nello sguardo, vive il privilegio di una
visione sul futuro per bocca del cinico giudice, anziano e in pensione, interpretato da Jean Louis
Trintignant.
Entrambi i protagonisti portano dentro le cicatrici di un amore tormentato: il magistrato
quello del tradimento, Valentine di una storia d’amore che non decolla e le toglie respiro. L’astratto
concetto di giustizia si concretizza nei destini individuali dei due, ma diventa rivelazione agli occhi
della giovane, che di futuro ne ha tanto davanti: ho giudicato perché non ero nella loro pelle.
Anch’io al loro posto avrei mentito, truffato, ucciso recita Trintignant in un monologo memorabile.
Nel controllo formale del film ritroviamo tutti i fili della vita che corre, ritmata con stile. La
passione, il dolore, il desiderio permeano le immagini, riempendole. I sette superstiti del naufragio
riportano al centro una fratellanza fra le pellicole, ancora prima che tra i personaggi plasmati
dall’occhio della macchina da presa.
“Sei personaggi in cerca d’autore” – il settimo è solo un trasportatore, quasi dantesco -
prendono corpo sovrimpressi su pellicola, per offrire al cinema il compito di restituirceli con amore.
L’enorme telone pubblicitario con il volto della protagonista, che cade in terra per il vento e
il temporale e galleggia sull’asfalto, anticipa il naufragio della nave su cui viaggia Valentine e sulla
quale il suo destino incrocerà quello degli altri personaggi della trilogia, consentendo la propria
rinascita. La nave simboleggia il ventre materno e non è altro che l’icona del sacrificio compiuto da
una madre per strappare alla morte i propri figli, aggrappandosi al suo immenso amore per loro.
Dopo trent’anni, dunque, le immagini di questi capolavori suonano come un memento, perché quei principi riportati alla memoria, quei colori rinvigoriti dalla visione talentuosa dal grande cineasta sono parte integrante del DNA di tutti noi. Ma purtroppo chi non ricorda il suo passato è destinato a riviverlo – ha sentenziato Primo Levi e basta leggere i giornali per comprendere la sua triste profezia e per indurci a interrogare seriamente le nostre coscienze. Non soltanto a Natale!