Fratelli
di Dante Fasciolo
Durante la settimana di Pasqua che ci ha preceduto,
ricca di iniziative religiose per lo più di rito cattolico,
le parole che più di altre sono risuonate sono state
fratellanza e cristiani, l’una compenetrata all’altra.
Assioma fin dalla nascita e per predicazione
di Gesù di Nazaret, poi Cristo Redentore.
Perchè non possiamo non dirci “cristiani”,
scriveva Benedetto Croce, accompagnando il suo pensiero
con riflessioni laiche, filosofiche, etiche.
Con dovute, rispettose, diverse carature, mi chiedo:
Perchè non possiamo non dirci “fratelli”,
facendo leva su considerazioni religiose, morali, sociali.
Se è vero che il Cristianesimo ha rivoluzionato la coscienza
imprimendo una nuova spiritualità
nell’animo di ogni singolo essere umano,
spingendo tale “rivoluzione”” al limite di una forma di virtù,
ebbene questa virtù non può non partire da un nuovo sentire
la vicinanza all’altro in forma di maggiore considerazione e rispetto
che proprio il cristianesimo battezza con il sostantivo “fratellanza”.
Dallo scambievole generico “fratello” in uso tra i seguaci di Cristo,
via via si afferma il concetto della predicazione evangelica
per la quale ogni uomo è figlio dello stesso Dio,
dunque “Fratello” per ragione spirituale… uomini tutti fratelli.
La storia dell’uomo sulla terra dissemina amare contraddizioni.
Dal “fratellevole” del Boccaccio nell’introduzione del suo Decamerone,
inteso come opportunità in divenire,
ramo del più serrato, consapevole, assertivo
“ama il prossimo tuo come te stesso”,
il cammino della “fratellanza” ha attraversato
– e attraversa ancora inspiegabilmente -
impervie strade lastricate di ostracismo
al punto che per l’attuale società edonista
il termine “fratellanza” altro non è che un’appendice indistinta e sbiadita
nella scala dei rapporti interpersonali, sociali e perfino religiosi e spirituali.
Talchè, riferendoci all' affermazione crociana iniziale,
non possiamo non ripiegare su una desolata variante:
“Perchè ancora non possiamo dirci fratelli ?!”