#328 - 15 aprile 2023
AAAAA ATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarrà  in rete fino alla mezzanotte del giorno sabato 30 novembre quando lascerà  il posto al numero 358 - BUONA LETTURA A TUTTI - Ora ecco per voi alcune massime: "Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all'infinito" (Jacques Attali) "I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perchè" (Mark Twain) "L'istruzione è l'arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo" (Nelson Mandela) "Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare" (Socrate) «La salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale: uniamo gli sforzi perchè i servizi sanitari siano accessibili a tutti». Papa Francesco «Il grado di civiltà  di una nazione non si misura solo sulla forza militare od economica, bensì nella capacità  di assistere, accogliere, curare i più deboli, i sofferenti, i malati. Per questo il modo in cui i medici e il personale sanitario curano i bisognosi misura la grandezza della civiltà  di una nazione e di un popolo». Alberto degli Entusiasti "Ogni mattina il mondo è un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosità , vengano a impregnarlo dei loro colori" (Fabrizio Caramagna)
letteratura

L'opera nella lingua dell'Urbe

Dante

La Commedia - Canto XXVI

di Angelo Zito

In questa ottava bolgia dell’ VIII cerchio sono puniti i consiglieri fraudolenti.
Dante incontra Ulisse, colpevole di aver consigliato l’ingresso a Troia del cavallo
e anche di aver convinto i suoi compagni a seguirlo nel suo viaggio di conoscenza
che si concluse drammaticamente.

CANTO XXVI

Godi Fiorenza, gónfiete de boria,
famosa pe’ li mari e pe’ le tere,
e altrettanto e più dentr’a l’inferno!

Qua dentro tra li ladri cinque n’ho visti,
ereno tutti nati in riva a l’Arno,
me copro de vergogna e tu te vanti!

Ma si sò veri li sogni fatti ar matino,
sentirai tra poco tutte li malanni
che a Prato te l’augureno in tanti.

E si già ce l’hai addosso è sempre tardi:
te li sentirai sur groppone prima o doppo!
che più me invecchio e più me n’addoloro.

Ce spostammo da lì pe’ li gradoni,
da ‘ndove prima eravamo scesi,
Virgijo me teneva sempre ar fianco;

e avanti per sentiero abbandonato,
tra li spuntoni e le pietre de quer ponte,
ce fureno d’aiuto anche le mani.

M‘addolorai allora come fò adesso,
si penso a quanto me trovai davanti,
tengo a freno lo sdegno più der dovuto
perché sii la virtù a consijamme;
nun devo privamme io de questa dote
avuta da l’arto o da le stelle,

Quante lucciole véde er contadino,
sdraiato a riposasse sopra er colle,
lo sguardo a la tera appena cortivata,

a la vigna che aspetta la vendemmia,
ne l’ora che er sole s’annisconne
e la mosca dà er posto a la zanzara;

artrettante fiamme dardeggianti
viddi risplenne ne l’ottava borgia,
‘na vorta giunto la dov’era er fonno.

Come Eliseo, vennicatore d’orsi,
vidde er carro d’Elia movese sverto,
e quanno li cavalli presero er volo

nu’ li poté seguí a occhio nudo,
ma solo la fiamma che saliva in arto
j’apparve come nuvola ner cielo;

così le fiamme dentro de quer fosso
impediveno la vista der dannato,
e ‘gni fiamma nisconne un peccatore.

Pe’ vvedé m’ero sporto sopra er ponte,
si nun me fossi attaccato a ‘no spuntone
sarei annato de sotto a corpo morto.

A me, ch’ero curioso, er duca disse:
“Dentro a li fochi ce stanno li dannati;
ognuno invorto ner foco che l’abbrucia”.

“Maestro”, je risposi, “mó m’hai convinto,
m’ero già fatto ‘n’idea che così fosse,
leveme però quest’altro dubbio:

chi c’è dentro quer foco co’ du’ lingue,
come usciveno doppie da la pira
dove Eteocle fu arso cor fratello?”

Rispose: “Là dentro Ulisse e Diomede
assieme affronteno er giudizzio
de la vendetta e l’ira der Signore;

dentro la fiamma sconteno er castigo
pe’ l’inganno fatto cor cavallo,
da cui principiò la nascita de Roma.

E soffreno pure pe’ l’astuzia
che a Deidamia je fu sottratto Achille,
e a Troia la statua der Palladio”.

“Si questi ponno parlà, lì dove stanno,
te prego”, dissi ar maestro, “e te riprego,
possi la mia preghiera valé mille,

de nun famme aspettà fino ar momento
che la fiamma cornuta s’avvicini;
vedi che pe’ la voja je sto sopra!”

“Quanto me chiedi merita la lode
pe’ qquesto”, me fece,” sò d’accordo;
ma èssi paziente prima d’aprí bocca.

Lascia che parli io che ho capito
quello che vôi, questi, lo sai, sò grechi,
forse nun capiranno la tua lingua”.

Er tempo che la fiamma s’avvicina,
e quanno je sembrò er momento bono
così sentii parla er duca mio:

“Anime che state assieme dentro ar foco,
si ho avuto quarche merito vivenno,
si meritai, nun sta a me dí quanto,

quello che v’ho scritto ner Poema,
fateve accosto e uno de voi ricconti
come se perse e dove finí li giorni”

La lingua più arta de quer foco eterno
prese a smovese come si parlasse,
pareva che er vento la scotesse,

la fiamma j’annava d’ogni parte,
come fa la lingua quanno parla,
e tirò fora la voce finalmente:

“Quanno abbandonai la maga Circe
che m’envojò pe’ ‘n’anno lí a Gaeta,
prima che Enea così la nominasse,

nun bastò la tenerezza de mi’ fijo,
né l’affetto de chi m’aveva creato,
né l’amore che Penelope se merta,

a famme vince la smania che ciavevo
de conosce quanto è granne er monno,
e quanto li vizzi e le virtù de l’omo;

e affrontai er mare a viso aperto,
su ‘na barca assieme a li compagni
che lí nun me vorsero lassà solo.

Viddi du’ continenti, viddi la Spagna,
er Marocco, la Sardegna e quele tere
che sò accerchiate dar mare tutt’attorno.

L’anni e la fatica pe’ ccompagni,
finché vedemmo er mare che se strigne
là dove mise Ercole er confine,

più ortre nun è dato move un passo:
su la destra vedevo ormai Sivija,
Ceuta me l’ero lasciata già a sinistra.

“Frati, compagni che in mezzo a tante prove”,
dissi, ”semo arivati dove er sole more,
a ‘sto punto famo un artro passo,

nun se negamo de riuscí a véde
quanto rimane ancora da conosce:
si ce stanno cristiani a l’artra parte.

Pure si sete partiti da le grotte
nun dovete annà a caccia come bestie,
ma in cerca de le stelle e der sapere”.

Tanto fu l’ardire che je diedi,
co’ ste poche parole, pe’ annà avanti,
che nun l’avrei potuti tené a freno;

la poppa verso er sole che sta a nasce,
spignemmo su li remi come matti,
sorcanno er mare sempre a la sinistra.

Ner polo de sotto era ormai notte,
vedemmo artre stelle, e in quello de sopra
manco ‘na luce sortiva a l’orizzonte.

Cinque vorte s’era accesa e poi rispenta
la faccia inferiore de la luna,
dacché era principiata quest’impresa,

quanno comparve un monte da lontano,
bruno er colore e me sembrava arto,
come nun ne avevo mai visti prima.

Breve la gioia trasformata in pianto;
‘na tempesta de vento ce travorse,
impetuosa impattò contro la prua.

In mezzo a l’acqua sbattuti pe’ tre vorte,
a la quarta se sollevò la poppa
e s’abbissò la barca, come Dio volle,

er mare sopra de noi ritornò piatto”.

Dante

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