#324 - 18 febbraio 2023
AAAAAATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarrà in rete fino alla mezzanotte di martedi 31 dicembre quando lascerà il posto al n° 359 - mercoledi 1° dicembre 2025 - CORDIALI AUGURI DI BUON ANNO e BUONA LETTURA - ORA PER TUTTI un po' di HUMOUR - E' da ubriachi che si affrontano le migliori conversazioni - Una mente come la tua à affascinante per il mio lavoro - sei psicologo? - No architetto, mi affascinano gli spazi vuoti. - Il mio carrozziere ha detto che fate bene ad usare WathsApp mentre guidate - Recenti studi hanno dimostrato che le donne che ingrassano vivono più a lungo degli uomini che glielo fanno notare - al principio era il nulla...poi qualcosa è andato storto - una volta ero gentile con tutti, poi sono guarito.
letteratura

L'opera nella lingua dell'Urbe

Dante

La Commedia - Canto XXII

di Angelo Zito

Nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio di Malebolge si trovano i dannati che si sono macchiati del peccato di baratteria, e con i dannati si combattono anche i diavoli che li incalzano nella pece bollente. Gli stessi diavoli ingaggiano tra loro una incalzante lotta. Dante assiste alla sconfitta del diavolo che finisce nella pece come i dannati.

CANTO XXII

Avevo già visto scennne in campo
cavalieri in parata e poi all’assarto,
e poi in fuga pe’ la ritirata;
e ancora su le vostre tere, Aretini,
incursioni a cavallo, sfide a duello,
dà er via a li tornei co’ le campane,
le trombe, li tamburi o artri segnali,
seconno l’usanza de le vostre parti,
o ar modo de li popoli stranieri;
ma nun viddi mai pedoni o cavajeri
movese ar sono soffiato da ‘na canna,
né la nave drizzà la rotta a ‘sta maniera.
Continuavemo annà co’ li demòni.
Che brutta gente! In chiesa stai coi santi,
e stai co’ l’ubbriachi a l’osteria.
Ero attento a vedé dentro la borgia
quali sò li dolorosi patimenti
de le genti infocate da la pece.
Come li derfini, co’ le schine ar vento,
dicheno a li marinai che er tempo cambia
e deveno menà le barche a riva,
pure qui, pe’ alleggerí la pena,
certi dannati mostraveno er dorso
pe’ rituffasse poi dentro la pece.
E come li ranocchi a pelo d’acqua,
stanno cor muso appena fori fosso,
e piedi e corpo resteno niscosti,
così là dentro stanno li dannati;
ma come s’avvicina Barbariccia
se rituffeno sotto ne le bolle.
E viddi, e ancora mó provo ribrezzo,
uno fermo in attesa, come càpita
che ‘na rana sta ferma e una se tuffa;
e Graffiacane, che je stava addosso,
j’arpionò la chioma tutta impeciata,
e ner tirallo sù sembrò ‘na lontra.
De loro avevo già imparato er nome,
da quanno furono scerti, e stetti attento
a sentì quale usaveno tra loro.
“Daje Rubica’ affonna l’ugne
e tiraje via la pelle dar groppone!”
gridaveno tutt’assieme ‘sti demòni.
Dissi: “Maestro, si ne sei capace,
famme sapé er nome der dannato
caduto tra le grinfie de ‘st’infami”.
Er duca je s’avvicinò de fianco;
a la domanna da ‘ndove venisse
quello rispose: “Sò nato in Navarra.
Mi’ madre, sposa de ‘no sciagurato,
che s’era magnato li sordi e la salute,
prima me mise ar servizio d’un signore.
E doppo, come servo, da Tebaldo;
lí compravo e vennevo a tutto spiano,
mó quer peccato lo sconto ne la pece”.
E Ciriatto, come fosse un cinghiale,
co’ du’ zanne ar posto de li denti,
co’ una sola riusciva a scorticallo.
Er sorcio era in balía de li gattacci;
ma Barbariccia l’acchiappa co’ le braccia
e fà: “Levateve de lí che mó l’inforco”.
Se girò poi verso er maestro mio:
“Chiedeje, si te serve, de sapé artro,
prima che quelli te lo fanno a pezzi”.
Er duca allora: “Dimme si ne la pece
trovi quarcuno che sii itajano”.
“Da poco me sò allontanato”, disse,
da uno ch’era nato là vicino.
Magari fosse co’ mme qui tra le bolle,
mejo sopporterei l’ugne e l’uncini!”.
Libicocco se n’esce: “Mó famo basta!”
e j’agganciò er braccio co’ l’arpione,
stracciannoje un pezzo de la spalla.
Menò un corpo pure Draghignazzo
su ambo le gambe; er capo loro
li squadrò uno pe’ uno, inferocito.
Quanno cominciareno a carmasse,
subbito er duca dimannò a lui,
che se contava li danni sur costato:
“Chi fu quello che, sbajanno, hai lassato
pe’ vení fino a qui, a questa riva?”.
“Frate Gomita se chiamava”, disse,
“fece le peggio frodi lí in Gallura,
ciaveva in mano li nemichi der padrone,
ma li trattò bene facennoli contenti.
Li libberò in cambio de denaro,
a sentí lui, e pe’ l’artri affarucci
combinava li scambi mejo d’un Papa.
Compagno de sventura assieme a lui
Michele Zanche, viè da Logodoro,
parlano ‘gni momento de Sardegna.
Ahimè quello là arota li denti;
nun parlo più perché me fà paura
che voja scorticamme la capoccia”.
Er gran capo, rivorto a Farfarello,
che strabbuzzava l’occhi pe’ ferillo,
disse: “Levete de qua immonno ucello!”.
“Si vôlete incontrà Toschi o Lombardi”,
riprese a dí er dannato impaurito,
“ve li convoco qui a ‘sto momento;
ma li Malebranche hanno da stà carmi,
che quelli senteno puzza de vennetta;
e io, da ‘sto posto ‘ndo’ me trovo,
in cambio de me, ve ne dò sette,
basta che fò quer fischio ch’è ‘r segnale
che fà chi sorte fora da le bolle”.
Cagnazzo a ‘ste parole arzò er grugno,
scosse la testa e disse: “Senti che furbo,
lo dice pe’ ppoté riannà de sotto!”.
E quello che de raggiri se ne intenne
rispose: “Ah io sarei furbo?
Io che dò artro dolore a chi già soffre”.
Impetuoso Alichino, prima de l’artri,
sbottò a ‘sto modo: “Si te tuffi sotto
nun verò, corenno, a ripijatte,
ma volerò co’ l’ali su la pece,
famo così: noi lasciamo ‘sto colle
e vedemo si da solo sai fà mejo”.
Tu che me leggerai, senti ‘sta gara:
tutti gireno l’occhi a l’artra sponna,
pure quello che prima era contrario.
Er Navarrese còrse l’attimo bono;
preso lo slancio a tera, con un sarto
se liberò da l’abbraccio der capo.
Tutti li demòni se sentirno in córpa,
più de tutti Alichino, lo sfidante;
infatti volò gridanno: “Mó te pijo!”.
Ma co’ l’ali fu meno veloce
de la paura che fece abbissà l’artro;
e nun je restò che cambià la rotta:
così se tuffa l’anatra de corsa,
si er farco s’avvicina minaccioso
che, scornato, je tocca tornà addietro.
Carcabrina, infuriato pe’ la beffa,
spiccò er volo p’attaccà er compagno,
speranno che er Navarrese se sarvasse;
e come ‘sto barattiere fu de sotto,
vòrse l’artij pe’ pijà Alichino
e riuscì a incrociallo sopra er fosso.
Ma l’artro, come ‘no sparviero esperto,
co’ l’artij l’afferrò a sua vòrta
e precipitorno ne la pece ardente.
Ma fu er calore a vince quela lotta,
che nun potettero ripijà er volo,
tanto appiccicate l’ali pe’ la pece.
Barbariccia, avvilito assieme a l’artri,
ne manna quattro in volo a quela riva,
armati d’uncini; quelli veloci,
de qua e de là calareno sur posto,
lanciareno ganci a quelli tra la pece,
ma la cottura l’aveva già arostiti.
Nun c’era artro da fà, noi ce n’annammo.

Dante

AAAA ATTENZIONE - Cari lettori, questo giornale no-profit è realizzato da un gruppo di amici che volontariamente sentono la necessità di rendere noti i fatti, gli avvenimenti, le circostanze, i luoghi... riferiti alla natura e all'ambiente, alle arti, agli animali, alla solidarietà tra singoli e le comunità, a tutte le attualità... in specie quelle trascurate, sottovalutate o ignorate dalla grande stampa. Il giornale non contiene pubblicità e non riceve finanziamenti; nessuno dei collaboratori percepisce compensi per le prestazioni frutto di volontariato. Le opinioni espressi negli articoli appartengono ai singoli autori, dei quali si rispetta la libertà di giudizio (e di pensiero) lasciandoli responsabili dei loro scritti. Le foto utilizzate sono in parte tratte da FB o Internet ritenute libere; se portatrici di diritti saranno rimosse immediatamente su richiesta dell'autore.