#322 - 21 gennaio 2023
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letteratura

L'opera nella lingua dell'Urbe

Dante

La Commedia - Canto XX - Ottavo cerchio.

di Angelo Zito

In questa quarta bolgia Dante incontra gli indovini che per la legge del contrappasso
hanno la testa completamente girata rispetto al dorso.
Come in terra pretesero di guardare troppo avanti qui camminano all’indietro.
Tra gli altri Anfiarao, Arunte Tiresia e la figlia Manto.

Virgilio racconta l’origine di Mantova, sua città natale,
che prese nome appunto da Manto che in quelle terre visse.

CANTO XX

Canto mó co’ li versi st’artre pene
de li dannati che sò qua sommersi,
e principio così er ventesmo canto.

Stavo già pronto a guardà ner fonno
de ‘sta borgia, là dove se vede
che er pianto de quell’anime l’inzuppa;

e viddi gente che lungo er cerchione,
piagnenno in silenzio, annava a tempo
come le processioni su ner monno.

Appena fissai lo sguardo su de loro,
me prese meravija ché er mento
nun era allineato verso er petto,

la faccia era girata sur de dietro,
je toccava camminà all’incontrario,
che sur davanti nun vedeva gnente.

‘Na paralisi forse l’ha storpiati
tanto da cambiaje i connotati;
nun saprei proprio che dì o che pensà.

T’aiuti er Signore a intenne quanto scrivo,
tu che me stai a legge, e pôi capíne
come me sciorsi in lacrime a l’istante,

védenno da vicino come er viso
era cosí stravorto, tanto che er pianto
jannava direttamente ner didietro.

E io pure piagnevo assieme a loro,
er maestro me dette su la voce:
“Che fai? Sei ingenuo come tutti l’artri?

Er senso de pietà qua dentro è morto;
nissuno è fori de testa più de quello
che prova d’addorcí la pena eterna.

Arza la testa, tiè la schina dritta,
là c’è chi fu inghiottito dar tereno
davanti a li Tebbani che gridaveno:

-‘ndo’ cori Anfiarao? Nun lascià la guera!-
La sorte finí a travorgelo de sotto
dove Minosse acchiappa li dannati.

Ecchelo là cor petto su le spalle,
in vita volle véde troppo avanti,
mó cammina ar contrario e vede dietro.

Appresso Tiresia, dar genere confuso,
de l’omo perse tutti l’attributi
pe’ trasformasse come fosse donna;

e, quanno vòrse tornà ar naturale,
dové cor bastone smove du’ serpi,
ch’ereno inutirmente avvortolati.

Dietro la panza de quello trovi Arunta,
che nella Lunigiana dentro a ‘na grotta
viveva tra li marmi de Carara,

lí l’abbitanti cortiveno la tera
e lui poteva guardà verso le stelle
e godesse er tramonto sopra er mare.

Quella che copre co’ le trecce sciorte
le zinne che da qui tu nun pôi véde,
e che cià er pelo der pubbe sur di dietro,

quella è Manto, che a lungo cercò casa
da fermasse poi dove sò nato;
vorebbe che pe’ questo m’ascortassi.

Doppo che er padre Tiresia fu seporto
e Tebbe restò preda der tiranno,
lei girò come esule per monno.

Ner norde de l’Itaja ce sta un lago,
confina cor Tirolo e la Germagna,
er nome che l’annomina è Benaco.

Tante le fonti che scoreno attraverso
l’Arpi Pennine e la var Camonica,
e qui s’encanaleno ner lago.

Ne l’isola lí in mezzo li pastori
de Brescia, de Trento e de Verona
potrebbero impartí li sacramenti.

A la riva più bassa c’è Peschiera,
una fortezza pe’ frenà l’assarto
de li Bresciani e de li Bergamaschi.

Da lì l’acqua che avanza dar Benaco
esce de fora e se trasforma in fiume,
che se move allegro pe’ li prati.

Quanno però se fa più grosso e córe,
ecco che cambia nome: se fà Mincio,
pe’ cascà poi ner Po a Governòlo.

Poco più avanti incontra ‘na pianura,
ce se slarga de sopra, fà la fanga
e d’estate cor callo resta a secco.

La vergine Manto, ancora in giro,
vidde ‘sta tera, sopra la palude,
spoja, brulla e senza li cristiani.

E proprio lì, lontana da le genti,
rimase a praticà le profezie,
lì visse co’ li servi e lì seporta.

Poi quanti abbitaveno là attorno
se riunireno in quer posto, contornato
da la palude che lo difenneva.

De sopra quell’ossa sorse ‘na città,
e pe’ Manto, la prima abbitatrice,
Mantova er nome che je dedicorno.

Furono tanti dentro quele mura
fino a che er ghibellin Pinamonti
ingannò Casalodi er dissennato.

Così è origginata la mia tera,
sta in guardia si quarcuno co’ l’inganno
prova a riccontatte ‘n’antra storia”.

E io: “Maestro co’ le tue parole
dai foco a la fiducia che te devo,
tutto er resto sò tizzoni spenti.

Ma dimme, tra quest’anime in cammino,
si è giusto che se parli de quarcuno;
questo è l’interesse che me smove”.

“Quello co’ la barba longa”, me rispose,
“che scenne sopra le spalle, è l’indovino
che co’ Carcante indicò a la flotta

quanno arzà le vele lí da l’Aulide:
li soli maschi che restorno in Grecia
furono quelli lasciati ne le culle.

Eurípilo er nome, su de lui ho scritto
ne li versi de quer poema mio
che tu hai studiato e che conosci bene.

Quell’altro che vedi così magro
fu Michele Scotto che de la magia
conosceva l’arte fraudolenta.

Poi Guido Bonatti, poi c’è Asdente,
che se rimpiagne mò d’avé lassato
er mestiere der cuoio e de lo spago.

Appresso le marvagge diventate streghe;
lasciareno l’ago, er fuso e la spola
pe’ ffà magie co’ l’erbe e li pupazzi.

Ma annamo che ormai è giunta l’ora
che la luna scompare a l’orizzonte
e sfiora l’onna là sotto Sivija,

appena ieri splenneva in cielo piena:
te devi ricordà te fu d’aiuto
mentre arancavi ne la sérva oscura”

E continuamm’a annà mentre parlava.

Dante

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