Dalla serie di articoli dedicati a personaggi del Cinema e del teatro
Una iniziativa di "Diari di Cineclub"
Dorian Gray
I dimenticati, 12. Dorian Gray [Diari di Cineclub n°31, IX 2015]
di
Virgilio Zanolla
Ha lavorato nella rivista e interpretato 32 film, alcuni d’assoluto rilievo, ma il pubblico la ricorda quasi solo per uno: nel ruolo della graziosa prima ballerina d’avanspettacolo Marisa Florian, che in Totò, Peppino e... la malafemmina di Camillo Mastrocinque, splendidamente doppiata da Andreina Pagnani, fa innamorare lo studentello canterino Gianni (Teddy Reno) e senza saperlo persuade sua madre Lucia, improvvisatasi in incognito addetta di una sartoria teatrale, che di là dall’apparenza vistosa è una brava ragazza, ricca di buon senso, sani princìpi e generosità di cuore, e dunque merita l’amore di suo figlio. Perché Maria Luisa Mangini, in arte Dorian Gray, era davvero così: e nei momenti di maggior fulgore della sua carriera artistica non dimenticò mai i suoi posti e le sue origini.
Nata a Bolzano il 2 febbraio 1928, era figlia di Attilio, dipendente statale, e della casalinga Flora Divina; quando aveva dieci anni, la sua famiglia si trasferì a Pesaro. In seguito, ella studiò danza a Milano, con Aurel Millos alla scuola della Scala; alta, bella, statuaria e «con le caviglie scoperte fino all’inguine», come scrisse con malizia un critico, nell’estate 1950, notata da Macario, esordì in palcoscenico nella rivista di Orio Vergani e Dino Falconi Votate per Venere, che questi interpretava accanto a Gino Bramieri ed Elena Giusti; lo spettacolo ebbe un successo così clamoroso che ai primi del ’51 fu portato in tournée a Parigi.
Elegantissima, vestita dallo stilista Schubert, Maria Luisa mutò il colore dei capelli da bruno a biondo platinato, e su consiglio d’un coreografo adottò il nome d’arte di Dorian Gray, il protagonista del romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891). È la storia d’un giovane d’eccezionale bellezza che per magia ottiene di non invecchiare mai: al suo posto, invecchierà la sua immagine nel ritratto dipintogli dal pittore Hallword; ma Gray s’abbandona a ogni genere di turpitudini, finché, sentendosi accusato dall’immagine del ritratto, sempre più vecchia e oscena, lo squarcia con un pugnale: e a morire è lui, mentre il ritratto recupera al suo posto la perduta bellezza. Anche Maria Luisa-Dorian aveva timore d’invecchiare: tanto che riuscì a far credere d’essere più giovane di otto anni.
La sua carriera teatrale proseguì con altre riviste: Sogno di un Walter (’51), accanto a Walter Chiari e Carlo Campanini, Gran Baraonda (’52-53) di Garinei e Giovannini, con Wanda Osiris e Alberto Sordi , Made in Italy (’54) con Macario e la Osiris, e Passo doppio (’54-55) con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Dove fascino, naturalezza e verve le meritarono il premio Maschera d’Argento.
Nel cinema aveva esordito nel ’51, quando debuttò al fianco di Pina Renzi in Accidenti alle tasse! di Mario Mattòli, che poi la diresse anche in altri due film; ma solo nel ’56 decise di dedicarsi in esclusiva alla settima arte. Quell’anno fu per lei tra i più fortunati: lavorò in quattro film, un musicarello di Giorgio Simonelli, Guaglione, e tre di Camillo Mastrocinque interpretati da Totò (due in coppia con Peppino De Filippo), il più celebre dei quali è appunto Totò, Peppino e... la malafemmina.
Il ’57 fu l’anno della svolta: conscia che il suo talento poteva esprimersi anche in parti drammatiche, Maria Luisa-Dorian interpretò da pari sua Jessy, l’amante di Alberto Lazzari alias Amedeo Nazzari nel film Le notti di Cabiria di Fellini e la benzinaia Virginia ne Il grido di Antonioni, il personaggio più impegnativo della sua carriera. L’anno dopo, per il ruolo di Ornella ne Le mogli pericolose di Comencini fu premiata col Nastro d’Argento quale migliore attrice non protagonista. La diressero altri registi di vaglia, come Gianni Franciolini (Racconti d’estate, ’58), Dino Risi (Il mattatore, ’60) e Mario Camerini (Crimen, ’60) e offrì buone prove nel filone brillante e in quello spionistico, ma in opere di minor peso.
Nel ’63 rallentò sensibilmente l’attività: era rimasta incinta; dalla sua relazione col giornalista nonché editore di giornali Arturo Tofanelli le nacque il figlio Massimo Arturo. L’ultimo suo film, I criminali della metropoli, lo diresse nel ’67 Henry Wilson, nome d’arte del regista Gino Mangini: un suo cugino. Da allora, Maria Luisa si ritirò a vita privata nella villa che si fece edificare in località Maso Croce a Torcegno, piccolissimo e grazioso paese della Valsugana.
Ed è lì che, la mattina del 15 febbraio 2011, s’è sparata un colpo di pistola alla tempia, senza lasciare biglietti. Si è detto, disperata di vedersi invecchiare; quale sia la verità, Maria Luisa merita tutto il nostro rispetto. Timida, o forse solo riservata, fino allora aveva accuratamente evitato ogni occasione di ribalta, dicendo più volte no anche a Maurizio Costanzo, che l’avrebbe voluta ospite nel suo show. Non amava parlare della sua carriera artistica, non lo fece nemmeno col figlio: «Preferisco siano i film a parlare per me» disse in quella che fu la sua ultima intervista, nel ’92: e forse, aveva ragione.