Uno scoop mancato... e dimenticato
Ritorno a Saigon
di Guido Alberto Rossi
La storia che state per leggere è uno scoop, magari un scoopino, comunque nessuno prima di adesso ha pubblicato queste foto e io non ho mai raccontato a nessuno di questo viaggio.
Non perché volessi tenere la cosa segreta, ma
semplicemente perché ai tempi in cui abbiamo fatto questo
servizio non interessava a nessuno e nessun giornale ce l’ha
acquistato e pubblicato, quindi è rimasto chiuso in un
cassetto per ben 48 anni.
Abbiamo, perché è un reportage fatto a quattro mani, le mie
e quelle di Ennio Jacobucci, probabilmente uno dei più grandi
fotografi italiani di guerra degli anni 70.
Avevo conosciuto
Ennio a Saigon nel 1968. Io ero un pivellino e lui ormai un
fotografo affermato, in Vietnam era già una leggenda, era
arrivato nel 1966 e non andò più via fino a Marzo del 1975
fotografando fino all’ultimo le partenze caotiche dei civili che
scappavano dai tetti dei palazzi prelevati dagli elicotteri.
Ennio ha dato una mano a tutti i giornalisti e fotografi italiani
che sono passati da Saigon in quegli anni. Ci aveva presentato
un funzionario dell’Ambasciata italiana con cui avevamo
bevuto un paio di birre nella terrazza parterre dell’hotel
Continental e alla fine quando ci siamo salutati ci siamo detti
la solita frase “ci sentiamo”.
Ai tempi, come sapete, non
c’erano telefonini e meme e l’unico modo per tenere i
contatti erano le lettere, magari un paio all’anno giusto per
sapere le reciproche vicende.
Con Ennio era una all’anno scarsa, molto breve, in genere
non superava la mezza pagina, non era un tipo di tante
parole, figuriamoci scrivere. Poi nella primavera del 1973 mi
scrive che stava venendo in Europa e sarebbe passato
dall’Italia, andava a trovare i parenti a Roma e poi sarebbe
venuto a Milano. Gli risposi che potevo ospitarlo; vivevo in un
bilocale perfettamente diviso al 50% tra sala da pranzo,
salotto, guardaroba e camera da letto, tutto incluso e
nell’altro 50%, l’ufficio, c’era anche una branda da campeggio
che per l’occasione veniva sistemata in ufficio e fungeva da
camera degli ospiti. Non era il Ritz ma era gratis.
Andammo a cena e dopo due bottiglie di buon vino
progettammo un viaggio in auto da Saigon a Quang Tri, che
era il punto più a nord, controllato dal governo sudvietnamita
al di là del fiume Song Thach Han c’era l’esercito
nordvietnamita che faceva gran sfoggio di bandiere.
La città
era passata di mano più volte tra marzo e ottobre del 1972
facendo un totale di circa 150.000 caduti, sommando le tre
parti.
Al mattino davanti a biscotti e caffè, anziché
dimenticare l’idea, come si fa di solito quando si abbassa il
tasso alcolico, tirammo fuori una cartina e incominciammo a
fare un piano concreto. L’idea ci sembrava ottima due
fotografi italiani in giro per un paese in guerra sull’orlo del
collasso, praticamente abbandonato dall’alleato principale.
Non c’erano molte foto della vita civile del paese e non ci
risultava qualcuno avesse fatto una cosa simile.
Avremmo
percorso circa duemila chilometri tra andata e ritorno sulla
QL1, sicuramente moltissimi soggetti da fotografare! Sarebbe
stato un gran reportage, ovviamente sarebbe interessato a
tutti e ci saremmo ripagati abbondantemente.
Purtroppo per
la nostra cassa comune non andò così, abbiamo girato tutte
le redazioni ma a nessuno più interessava il Vietnam, era
ormai acqua passata e senza gli USA non poteva fregare di
meno.
Comunque, fu un gran viaggio: grazie ai contatti di Ennio
saltò fuori una Citroen Mehari di plastica che in Vietnam si
chiamava Dalat e non superava i 110 km orari in discesa e
con il vento a favore.
Partimmo un mattino e capimmo subito
che se anche avessimo avuto una Ferrari i tempi di
percorrenza sarebbero stati gli stessi: circa due minuti a
chilometro con strada sgombra, realisticamente facevamo
circa 20 km/ora, senza contare il tempo perso ai posti di
blocco dell’esercito sudvietnamita che erano abbondanti e
lenti. C’era poi il problema delle forature che oltre al tempo
impiegato per cambio della gomma c’era l’inevitabile sosta
dal gommista. Mentre la benzina e il cibo non erano un
problema, l’incubo quotidiano era la ricerca della locanda o
hotel, non tanto per la stanza che bene o male andava
sempre bene, il problema vero era dove mettere l’auto per la
notte in modo di ritrovarla al mattino.
Dopo le prime due sere, scoprimmo che il modo più sicuro era pagare qualcuno che vi dormisse dentro e noi per sicurezza ci tenevamo la sua carta d’identità fino al mattino quando partivamo, se poi ce la lavava avrebbe avuto un bonus. Altre volte la strada veniva bloccata perché era in atto un combattimento, ma grazie alle nostre tessere stampa (Bao Chi) potevamo passare. Peccato o per fortuna tra una cosa e l’altra siamo sempre arrivati che era tutto finito. Una volta abbiamo anche sbagliato strada e dopo aver percorso qualche chilometro tra gigantesche buche e fango autobloccante siamo spuntati dietro un posto di blocco dell’esercito governativo, con tanto di carro armato; molto meravigliati di vederci interi ci spiegarono che avevamo attraversato una zona Viet Cong, beh! non era colpa nostra se non c’erano cartelli.
Dopo 5 giorni, arrivammo tra i
ruderi di Quang Tri e tornammo a Saigon impiegando un
giorno in meno. Eravamo tornati al quasi lusso dell’ hotel
Continental molti fieri del nostro viaggio, delle foto scattate e
convinti di essere diventati un po' meno poveri.
Ennio morì a Roma nel 1977 e tutto il suo magnifico archivio,
comprese le foto del nostro scoop, andò perduto.