#102 - 1 settembre 2014
AAA ATTENZIONE - Questo numero rimarrŕ in rete fino alla mezzanotte del 19 aprile, quando lascerŕ il posto al numero 350. Ora MOTTI per TUTTI : - Finchč ti morde un lupo, pazienza; quel che secca č quando ti morde una pecora ( J.Joyce) - Lo sport č l'unica cosa intelligente che possano fare gli imbecilli (M.Maccari) - L'amore ti fa fare cose pazze, io per esempio mi sono sposato (B.Sorrel) - Anche i giorni peggiori hanno il loro lato positivo: finiscono! (J.Mc Henry) - Un uomo intelligente a volte č costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti (E.Hemingway) - Il giornalista č colui che sa distinguere il vero dal falso e pubblica il falso (M. Twain) -
Racconto

La bambola

di Ruggero Scarponi

Al caffè Ceccarelli ho cominciato ad andarci che ero ancora bambino.
Mi ci portava mio padre, la sera, per distrarsi e non restare a casa a pensare.

D’inverno ci andavamo prima di cena perché alle nove e mezza o alle dieci al massimo, il locale chiudeva. D’estate invece ci si poteva stare fin dopo mezzanotte. Il caffè Ceccarelli era il più rinomato del paese e si trovava sulla piazza principale, sotto i portici, vicino al Municipio. L’interno era caldo e accogliente, rivestito di legno scuro con tavolini stile liberty e le rifiniture in ottone brunito. Le vetrine che davano sulla strada, erano schermate da pesanti tende in velluto verde che gli conferivano un’aria un po’ decadente e riservata. E anche il personale, formale e distaccato sembrava respirare quell’aria contegnosa tipica delle famiglie aristocratiche.

La bambolaLa bambola

La proprietà era sempre stata della stessa famiglia, i Ceccarelli appunto, dalla fondazione, nel 1835 come recitava la targa posta al centro della parete di fondo sopra la macchina del caffè. Come spesso avviene nei paesi, certi locali con il tempo diventano istituzioni ed è inevitabile che vi cresca intorno un po’ di mitologia. D’inverno, ad esempio, si faceva la fila al banco della pasticceria dove servivano i famosi babà al rhum e d’estate i gelati, che prodotti con metodi artigianali, richiamavano frotte di golosi da tutta la provincia. I Ceccarelli d’altronde sapevano amministrare molto bene tutto questo patrimonio, lavorando con cura maniacale alla qualità dei prodotti a cominciare dalle materie prime che sceglievano sempre con occhio esperto e intransigente. Ma su tutto svettava fin dai tempi lontani della fondazione, il celebre “espresso”. Un vero prodotto d’Autore, che il Sor Gino, il “Vecchio” , come lo chiamavano i paesani, s’incaricava personalmente da oltre cinquant’anni, a rendere inimitabile mediante un paziente lavoro di selezione delle miscele ottenute mescolando le qualità di caffè più pregiate.

Il Vecchio, autentico custode della tradizione, si occupava perfino della tostatura, applicando in maniera pignola i metodi tramandati dai fondatori. Al “Ceccarelli”, mio padre ci prendeva giusto l’espresso e poi scambiava quattro chiacchiere con gli amici. C’era sempre un sacco di gente interessante e io m’incantavo ad ascoltare i discorsi che facevano. Parlavano di lavoro, di sport o di politica, ma soprattutto di “progetti”.

La bambola

C’era Mariano, ad esempio, uno alto e grosso con mani enormi e sempre bianche come se le avesse tenute immerse nella calce, che lavorava alla fabbrica dei sanitari e sognava di farsi un piccolo laboratorio tutto suo, in casa, nella cantina perché aveva senso artistico, diceva, e aveva in mente certe idee che l’avrebbero reso famoso. In casa conservava una rara collezione di libri d’arte sulla ceramica antica e quando ne parlava, gli luccicavano gli occhi. Tuttavia doveva mettere da parte ancora un bel po’ di soldi perché “c’era da fare un investimento”…Anche il signor Alvise m’incuriosiva. Era una specie di contabile. Parlava solo di numeri, traduceva tutto in numeri e tutti lo chiamavano per stimare e valutare qualsiasi cosa. Insomma se volevi avere un parere su un negozio dove ci fosse di mezzo della merce o del denaro, con il Signor Alvise andavi sul sicuro, non sbagliava di una virgola neanche a volerlo. Io non capivo granché di quelle cose ma mi piaceva ascoltarlo perché mi sembravano cose importanti, “cose da grandi”. C’era anche Ottavio, il geologo che s’intratteneva con l’Ing. Galanti dell’ufficio tecnico del Comune in discussioni interminabili riguardo ai movimenti della cosiddetta “faglia diretta”, lungo la dorsale montana, dall’altra parte della ferrovia. E poi Flavio Flavi che di mestiere faceva l’ attore di teatro e stava sempre in giro di qua e di là, ma quando soggiornava in paese veniva al caffè a parlare con mio padre del progetto di dar vita a una compagnia autogestita con un teatro stabile. Mio padre che da giovane aveva frequentato la filo-drammatica del liceo, lo ascoltava volentieri approvando con la testa a tutto quello che diceva. Ma il mio preferito era Gasparotto, così chiamato perché era basso di statura ma robusto e forte come un toro. Tutti dicevano che era uno un po’ spostato e non aveva un lavoro vero e proprio. Intanto era l’unico che al “Ceccarelli” non aveva mai bevuto il famoso espresso, anche se ci veniva da più di trent’anni. A lui piaceva il Cognac e non beveva altro. Gasparotto mi piaceva proprio perché non aveva un lavoro come tutti gli altri. Lui viveva delle cose del bosco. Un po’ lo invidiavo per la vita libera che conduceva e un po’ mi faceva sognare quando ad esempio raccontava di come saliva su in montagna prima dell’alba a cercare funghi tra i cespugli. Oppure quando, qualche volta verso mezzogiorno, lo si vedeva rientrare dalle sue esplorazioni e fermarsi al “Ceccarelli” per farsi un cicchetto e avere l’occasione di mostrare a tutti qualche bell’ esemplare di porcino o qualche tartufo da esposizione. Tutti prodotti della terra che poi rivendeva ai ristoranti. Insomma non avrà avuto un lavoro stabile ma non se la passava male. La macchia, a conoscerla, diceva non è avara e se sai come trattarla, ti dà da vivere, meglio di un’azienda. E in più te ne stai all’aria aperta, che è la cosa più bella del mondo. E se piove o se nevica Gasparotto? Diceva qualcuno per provocarlo. Me ne sto a letto, rispondeva con sicurezza. Se sei furbo, nei giorni buoni metti da parte qualcosa, per quelli di magra. E giù un altro cicchetto.

Si può dire che la vita del paese fosse concentrata al Ceccarelli, lì finivano tutti i discorsi, i sogni, i progetti e tutto vi si rimescolava in un fermento d’idee e di nuove energie che tenevano viva e unita la piccola comunità del paese. All’inizio dell’estate avvenne un cambiamento importante. Il caffè ottenne un prestigioso riconoscimento da parte di un qualche ente per il commercio in un’ occasione speciale e la famiglia Ceccarelli dopo lunghe discussioni approvò la proposta di mutare l’ insegna “Caffè Ceccarelli” in “Gran Caffè Ceccarelli”.

La speciale occasione fu la visita al paese del Presidente della Repubblica. L’uomo politico, infatti, che da bambino aveva studiato alle scuole elementari tenute dai certi religiosi, tra i vari impegni istituzionali, volle ricavare uno spazio per andare a ritrovare la scuola della sua infanzia. Si ricordò perfino dell’antico caffè Ceccarelli e con la scorta si fermò a gustare il celebre “espresso”. Se ne parlò per settimane, in paese, anche se il Vecchio, il Sig. Gino non volle mai che fossero esposte le foto a ricordo dell’evento. La gente, da noi ci deve venire perché il nostro espresso è il migliore, disse, non perché c’è venuta gente importante. Era un tipo strano e anche un po’ burbero il Vecchio ma nessuno ebbe nulla da ridire. Tuttavia le cose erano destinate a cambiare perché come sempre avviene in tutte le vicende umane dopo che si è raggiunto l’apice del successo, inizia la decadenza.

La bambolaLa bambola

Un giorno, nel caffè, anzi nel Gran Caffè, qualcuno notò un’assenza singolare. Mio padre stava chiacchierando con Mariano, il ceramista, che gli stava raccontando come avesse da poco comprato il forno per la ceramica e che se tutto andava per il verso giusto entro un mese o due si sarebbe messo in proprio, e…avete visto Gasparotto? Disse all’improvviso una voce più forte delle altre. La domanda fece scendere il silenzio nel locale. E già, Gasparotto, dove s’era cacciato? Non era mai avvenuto che mancasse all’appuntamento serale, di giorno magari sì, ma il cicchetto serale non se l’era mai perso. Nessuno rispose, e dopo qualche istante tutti ripresero a parlare dei fatti loro e l’atmosfera tornò quella di prima.

Il giorno seguente mancò anche Mariano e con Mariano, il sig. Alvise. La cosa cominciò a farsi strana, eppure i signori in questione non erano spariti dal paese e tutti potevano vederli durante il giorno, al lavoro come al solito. La particolarità consisteva nel fatto che avevano smesso di frequentare il Gran Caffè Ceccarelli, tutto qui. Mio padre s’interessò della questione e incrociato Mariano all’ufficio dell’anagrafe presso il Comune dove si erano recati entrambi per dei documenti gli chiese come mai disertasse, lui con gli altri, il caffè serale.

Ma dico, rispose Mariano, non sai niente tu? Non sai nulla del bar nuovo, quello che hanno aperto sulla nazionale? Mio padre fece cenno di no con la testa, non aveva avuto nessuna notizia in proposito. Vacci, gli propose Mariano con un sorrisetto malizioso, e poi mi saprai dire.
Fu così che anche mio padre decise di fare una puntata per vedere il nuovo bar e quando rientrò a casa, mi disse, metti il cappotto che usciamo in macchina. Dopo una quindicina di minuti raggiungemmo il bar che si trovava sulla nazionale all’ingresso del paese, non era distante da casa nostra. C’erano un sacco di giovani fuori, quasi tutti seduti sui motorini o nelle auto sportive che insieme a delle ragazze parlavano e ridevano forte. Tutti bevevano bibite e birra dalle bottiglie.
Sull’insegna c’era disegnato il profilo di una ragazza tutta curve e la scritta: Dolly Bar. Entrammo. L’atmosfera era molto diversa dal “Ceccarelli”. C’era una musica fortissima e si aveva la sensazione di entrare in una specie d’astronave. Tutto era rivestito di acciaio e cristallo. Le luci pur essendo intense erano concentrate solo su alcuni punti e creavano delle zone d’ombra nelle quali erano sistemati dei tavolini. Attorno vi sedevano gruppi di persone dall’aria molto divertita mentre sorbivano gelati dai colori accesi, inverosimili, serviti su coppe di plastica fluorescente.

La bambola

Mio padre si avvicinò al banco. Subito ci si parò davanti una ragazza giovane e molto appariscente, doveva essere la Dolly dell’insegna, pensai. Si muoveva in maniera strana, meccanica, direi.
Dall’altra parte del banco, addetto alla macchina del caffè, un giovanotto che si dondolava a ritmo di musica notando il mio sguardo un po’ sperduto mi fece l’occhiolino in segno d’intesa.
La ragazza sgranò gli occhi su mio padre e con una voce artificiale, assai melodiosa chiese cosa desiderasse. Mentre parlava, ammiccava in modo esagerato, quasi comico e sembrava che c’invitasse a ficcare lo sguardo nell’ampia scollatura. Mio padre esitò perplesso e poi si risolse a chiedere un espresso e un gelato confezionato per me. La bella allora passò l’ordinazione al giovane della macchina del caffè, e nell’attesa, cominciò a muoversi a ritmo di musica anche lei. Sembrava di gomma tanto era liscia la sua carnagione, piene le sue forme e flessuosa nei movimenti. Dopo qualche istante ci servì. Posò la tazzina con l’espresso davanti a mio padre. Poi con un movimento provocante si sporse dal bancone per servirmi il gelato che avevo chiesto. Diventai rosso come un peperone quando con fare disinvolto, dopo avermi fissato, tra uno sbattere di ciglia mi lanciò un bacio molto sensuale. Restai paralizzato per la sorpresa e l’imbarazzo.
Ma proprio in quell’istante tutto il locale risuonò dello schiocco di una clamorosa pacca che Dolly, ancora piegata sopra il banco nell’atto di servirmi il gelato, ricevette sul sedere, da parte del suo collega il giovanotto addetto alla macchina del caffè.
Subito la ragazza si rizzò con l’espressione smarrita e in mezzo alle risate di tutti gli avventori e in particolare dell’autore della bravata, se ne uscì con un, ooh! Fintamente imbarazzato. Ma come fosse avvezza a certe cose e per nulla turbata, cambiando espressione in un attimo, si rivolse a mio padre, fanno tre euro signore li metta pure qua dentro, disse suadente, indicando la scollatura nella quale il seno prosperoso sussultava vistosamente.
Mio padre che aveva osservato la scena precedente restando letteralmente allibito stava per replicare qualcosa d’indignato quando giunse Gasparotto a mettergli una mano sulla spalla. Dai, non t’arrabbiare, gli disse, è finta, non l’hai capito? E’ una bambola di silicone o che so io, finta comunque. Mio padre restò a bocca aperta. Guardò Gasparotto e poi la ragazza, incredulo. Come finta, chiese? Finta, ripeté Gasparotto, anche se parla e si muove come se fosse vera. Guarda, adesso ti faccio vedere. Intanto però stasera offro io, aggiunse divertito. Tirò fuori i soldi, i tre euro della consumazione e li fece scivolare nella scollatura della ragazza e nel compiere il gesto con le sue mani forti e ruvide la palpò vistosamente, suscitando nuove risate e salaci commenti in tutto il locale. Si fa così, affermò divertito. E’ tutto finto, ma è solo per giocare, per divertirsi, senza far nulla di male, come ragazzini.
Come degli scemi! replicò mio padre, furibondo, lasciando l’espresso sul bancone senza neanche averlo assaggiato, mentre mi afferrava per un braccio e mi portava fuori.

La bambola

Ci volle del tempo perché mio padre smaltisse il disappunto provato quella sera.
Io stesso benché bambino me ne tornai a casa con un senso di forte disagio, come se quell’esperienza avesse segnato per me la fine di un mondo rassicurante, pieno di certezze. Ma forse, anche se ancora non lo sapevo, la fine dell’infanzia.
Comunque qualcosa cambiò davvero nel paese e non so se a causa della Bambola o dei tempi che mutavano rapidamente. Di fatto mi sembrò che le persone fossero diventate improvvisamente più individualiste, intente a ricercare una felicità che non aveva importanza di condividere con gli altri e che in ultima analisi avessero perso tutte il gusto di sentirsi parte di una comunità.

La bambola

Il Gran Caffè Ceccarelli, rinomata ditta dal 1835, chiuse i battenti qualche anno dopo l’apertura del Dolly Bar. Fu a causa della Bambola? Può darsi, in considerazione del fatto che furono aperti altri Dolly Bar in paese e uno perfino sulla piazza principale, di fronte al “Ceccarelli”. Ma forse erano cambiati i gusti della gente oppure i gelati industriali, dai colori accesi, serviti sulle coppe di plastica fluorescente attiravano di più di quelli artigianali, serviti su quelle di vetro. O forse in paese non c’erano più i veri estimatori dell’espresso e una miscela valeva l’altra se poi ci si poteva divertire con la Bambola. Insomma il signor Alvise ci sta ancora studiando su questi mutamenti del mercato, ma sta di fatto che tutto iniziò con l’arrivo della Bambola.

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