Il paesaggio che tutti ci invidiano
Uno sguardo d'insieme e l'invito alla preservazione attiva
Riparare la terra
di Claudio Bacilieri
Direttore di Borghi Magazine
L’appello del mondo ambientalista, fatto proprio anche dal Papa, a “riparare la terra”, ci porta a riconsiderare il nostro modo di stare nei luoghi, di muoverci nel mondo e di osservarlo. Sfogliando le immagini della nostra rivista, la Terra sembrerebbe fotogenica, un bel pianeta da abitare. Sappiamo che non è così: il cambiamento climatico e i suoi effetti, l’inquinamento, il deserto che avanza, le disuguaglianze sociali, ci avvertono che una catastrofe è alle porte e bisogna invertire la rotta. Andiamo perciò alla ricerca di spazi dove sentirci bene, cercando di contribuire anche noi, nel nostro piccolo, a “riparare la terra”.
Dove andiamo? C’era una volta la periferia dell’Impero, la provincia, dileggiata, noiosa, senza prospettive. E c’era la città, meglio se metropoli: dinamica, effervescente, creativa. La città ha attirato tutte le migliori energie e la provincia, campagna o montagna che fosse, si è svuotata, sfibrata, perduta sino all’abbandono, senza più giovani, senza servizi e idee. Ora è tempo di riequilibrare questo rapporto, rendendo la città un po’ più simile alla campagna (facendo crescere borghi urbani, negozi di comunità con i prodotti del contado, aree verdi, mobilità dolce) e i borghi un po’ più simili ai grandi centri (lavoro smart, cultura, economia verde). La sfida dunque è alleviare la tensione sulla terra facendola respirare nelle città e offrendo alle persone la possibilità di vivere da vicino, nei borghi e sugli Appennini, il rapporto con la natura, le erbe, i fiori, i boschi, gli animali, le vendemmie, le vette, le nuvole. L’economia e le istituzioni dovrebbero rivalutare questa Italia meravigliosa che per tanto tempo è rimasta nascosta dietro le quinte di una modernità aggressiva, già dagli anni Sessanta, ma che non è scomparsa dall’immaginario di molti di noi e anche degli stranieri.
Transumanza @ seiser-alm-marcketing
Abbiamo sentito la scrittrice palestinese Suad Amiry dire al Festivaletteratura di Mantova che “l’Italia è il paese della bellezza, una bellezza che si riflette sul paesaggio, i monumenti, ma soprattutto sulle persone. Amo il vostro modo di vivere, siete sempre così rilassati anche se so che anche da voi ci sono problemi. Avete scoperto, senza volerlo, il senso della vita”. E Lo scrittore inglese Tim Parks, a conclusione di un suo recente articolo per The Guardian sui borghi a nord-est di Roma, ha ricordato “quanto si è fortunati a essere vivi in un mondo in cui ci sono l’Italia, l’estate e la libertà”. È ora di tornare a sdraiarci sull’erba, alla ricerca di un prato in pendio da cui far scivolare i pensieri cattivi o rancorosi. Forse non siamo “sempre così rilassati” come ci vede Suad Amiry - che vive a Ramallah dove allentare le tensioni è molto difficile - ma andiamo di radura in radura, di borgo in borgo, a cercare il nostro autunno. In ottobre a Castelrotto (Kastelruth in tedesco), il cui territorio è in parte compreso nel Parco naturale dello Sciliar, si svolge il rito della transumanza. Le mucche agghindate con corone di fiori e campanacci, insieme a capre, pecore e cavalli - circa 250 capi in tutto - e ai pastori, sfilano nell’Alpe di Siusi. Guida il corteo l’animale eletto come il più bello, agghindato in modo appariscente. Segue la banda musicale del paese. Ci si rifocilla al mercato contadino, tra un krapfen e uno strudel, guardando la forma compatta, tagliata da una frattura laterale, del massiccio dello Sciliar. Lo Sciliar, il Sasso Piatto e il Sasso Lungo sono i giganti dell’altopiano di Siusi (in tedesco Seiser Alm): non semplici montagne, ma barriere coralline impietrite, un tempo poste sul fondo marino e ora a un passo dal cielo. Sui pascoli d’alta quota gli animali trascorrono la loro estate, tra incredibili fioriture. Quando le giornate si fanno più corte, a inizio autunno, lasciano le malghe e scendono dai loro alpeggi mentre l’Alpe si consegna ai colori dell’autunno, in attesa di trasformarsi in inverno in un bianco paradiso solcato da escursionisti con le racchette da neve. Al suono dei campanacci e dei corni alpini, il corteo degli animali, dei pastori e dei contadini in abito tradizionale arriva a Compatsch e si conclude a Castelrotto. Avviene nel Giorno del Ringraziamento, una festa tipica delle realtà rurali dell’Alto Adige legata a riti agresti e religiosi che hanno lo scopo di esprimere la gioia per il raccolto e un’annata agricola soddisfacente. Un Ringraziamento al creato, aggiungiamo noi, per la bellezza granitica e insieme commovente dell’Alpe di Siusi. Il Comune che possiede tanto ben di Dio è Castelrotto, uno dei Borghi più belli d’Italia.
Alpe di Siusi Marketing_Manfred Kostener.jpg
Diverse facciate del paese, come quelle di Villa Felseck e Casa Thurn-Edenberg, sono state decorate da un pittore, Eduard Burgauner (1873-1913), che voleva trasformare il suo luogo natale in un’opera d’arte. Ancora oggi l’immagine del borgo è quella di un interessante connubio di stile Liberty e tradizioni locali di gusto barocco.Sempre in Alto Adige, l’autunno ci spinge nei luoghi del Törggelen, ovvero nei masi contadini e nelle aziende agricole dove da inizio ottobre a fine novembre si ripete l’usanza di ospitare nelle stuben i visitatori per rifocillarli dopo che hanno passeggiato tra vigne, boschi, castagneti e piccoli borghi. La potenza e la struggente bellezza della natura autunnale, che si manifesta a ogni passo nel bosco, a ogni foglia in caduta libera o lenta, rendono il Törggelen un momento conviviale benaugurante. La sua origine è infatti nella consuetudine di vignaioli e contadini di ritrovarsi in cantina a fine vendemmia per assaggiare insieme il vino nuovo. Il termine deriva da torggl (dal latino torquere) e significa torchio, la pressa in legno per pigiare l’uva. I piatti del Törggelen sono quelli tradizionali: canederli, schlutzkrapfen, salsicce con crauti, castagne arrosto, krapfen, mosto d’uva e naturalmente vino.
Chiusa
Chi sceglie per camminare i boschi della Val d’Isarco, non può mancare la visita a un altro dei Borghi più belli d’Italia, Chiusa (Klausen in tedesco), la cui cantina Valle Isarco è nota per gli eccellenti vini bianchi, come l’aromatico Gewürztraminer, capace di raccogliere il sole che indora le vigne coltivate sui terrazzamenti della valle, il celebre Müller Thurgau o il delicato Sylvaner, che proviene dai ventilati e tiepidi vitigni posti sui declivi dell’abbazia benedettina di Sabiona. Dal centro storico una salita non troppo impegnativa, per chi ha buone gambe, porta al convento passando sotto pareti di roccia, attraverso i vigneti e un sentiero di roverelle, carpini neri e arbusti selvatici. Le prime monache vi si stabilirono nel 1686 e ancora oggi vivono in clausura. La prima attestazione di Sabiona come sede vescovile risale al VI secolo. Nel vigneto antistante la chiesa barocca di Nostra Signora sono state trovate sepolture di quel periodo. Nel punto più alto di Sabiona, la chiesa della Santa Croce è anch’essa barocca (1679), con affreschi in trompe-l’oeil e un crocifisso gotico del Quattrocento. Chiusa nel centro storico conserva quella piacevole atmosfera nordica con venature mediterranee che tanto era piaciuta agli artisti che, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, la trasformarono in una sorta di atelier all’aperto. Seduti ai loro cavalletti nei vicoli stretti del paese o su un’altura nei dintorni, erano diventati parte della stessa atmosfera romantica del borgo. Tra i più celebri esponenti della colonia artistica di Chiusa, le cui opere sono esposte nel Museo Civico, ricordiamo Franz Defregger, Alexander Koester e Albin Egger-Lienz. Sul versante orientale della Valle Isarco si trova la frazione di Gudon, punto di partenza per passeggiate ed escursioni che portano nella vicina Val di Funes per ammirare il magnifico paesaggio delle Odle, l’Alpe di Siusi, l’Alpe di Villandro. Uno dei luoghi più fotografati dell’Alto Adige è, nel piccolo comune di Funes, la chiesa tardogotica della Maddalena, cui fa da sfondo l’imponente massiccio delle Odle.
Funes la Chiesa di Santa Maddalena con le Odle sullo sfondo @GlenSinclair,jpg
Cambiamo montagna: siamo ora a poco meno di 700 metri d’altitudine in Val Seriana, in Lombardia, nel borgo di Gromo. Un posto che, se ci arrivi la sera, si fa piccolo, scuro, rintanato sotto i suoi tetti d’ardesia. Gromo ha i colori del ferro, dell’ardesia e dei boschi d’autunno. Qui c’erano fucine, botteghe, miniere di ferro. Qui si producevano e si smistavano verso i mercati europei le armi bianche, forgiate dai magli mossi dalle acque del torrente. Del periodo, compreso tra il 1400 circa e il 1666, in cui Gromo per la fabbricazione di armi era una “piccola Toledo”, portano traccia il castello Ginami, il palazzo Milesi (ora sede comunale), la chiesetta di San Gregorio, la chiesa parrocchiale di San Giacomo, ricca di opere d’arte tra cui l’altare maggiore del 1645, e diversi palazzi. Il territorio è quello del Parco delle Orobie, ricco di percorsi escursionistici che uniscono la bellezza del paesaggio alle testimonianze di antiche attività economiche lungo i corsi d’acqua, come cave, mulini, miniere (anche d’argento) e fucine. Camminando sui sentieri delle malghe, tra baite e cascine sparse nei prati, tra abetaie, boschi di latifoglie e cascate, si incontrano edicole votive, architetture rustiche, pascoli con recinti di pietre, grotte carsiche, rifugi, chiesette e piccolissime borgate. Questo è anche il regno del formaggio: le formaggelle e il formaggio grasso d’alpe di cui si riforniva la Serenissima (si dice che i dogi ne fossero ghiotti).
L’autunno occupa un posto importante nella biografiadi tutti noi, dice Duccio Demetrio nel suo Foliage. Vagabondare in autunno (Raffaello Cortina Editore, 2018). Nel rosseggiare delle vigne, che andiamo a vedere a Neive, un borgo di Langa, in Piemonte, scorgiamo l’impermanenza, la transitorietà della vita: quella dolce mestizia che può anche essere l’avvio della “vita nuova”. Percorriamo le vigne per assaporare il vino che sarà: e sarà un grande vino, il Barbaresco che ci riempie il calice col suo color rosso granato che sfuma in arancione. Com’è bello, qui, scollinare per vini come nel film Sideways! Siamo infatti in uno dei distretti vinicoli più famosi del mondo, nella zona, appunto, del Barbaresco, che tocca quattro centri: oltre a Neive e Barbaresco, anche Treiso e Alba. L’ inebriante on the road tra piccoli borghi, cantine e dolci colline piene di bagliori, di sfumature che percorrono tutta la gamma del rosso, del giallo e dell’arancione, piace ai turisti del vino che a Neive ne trovano ben quattro di vini: oltre all’eccelso Barbaresco, vi si producono anche il Dolcetto (il paese ricade sotto la Doc di Alba), il Moscato d’Asti che sa di glicine e tiglio, e la Barbera d’Alba che profuma di mora e di prugna. Da questo borgo di cerniera tra le Langhe, il Monferrato e il Roero, dove le ceste della vendemmia allineate nelle vigne sono già pronte per essere trasportate nelle cantine, prendiamo la strada per il Sud, alla ricerca delle illuminazioni, della dolcezza e anche della solitudine che il caldo estivo ha assopito.
Furore
Seguendo i tornanti collinari di una strada incisa nel verde, la Amalfi-Agerola, si arriva a Furore, un giardino pensile proteso tra mare e monte. Più che un paese, è un abitato sparso, con le case che spuntano da costoni di roccia e guardano il mare della costiera amalfitana. Furore sta acquattato in un fiordo, ai piedi della rupe, in “una piccola cala, dove si possono contare i sassi. Presso una delle pareti, quasi a mezz’aria, sono cresciute smilze, quasi diresti come le erbe al buio, colore della pallida e dorata roccia, alcune case di pescatori”, scriveva Riccardo Bacchelli in una lontana estate (Appunti di viaggio, 1927). Una ventina d’anni più tardi sarà Federico Fellini a descrivere Furore nella sceneggiatura de Il Miracolo (1948) episodio di un film diretto da Roberto Rossellini, con protagonista Anna Magnani. La stessa attrice comprò qui una di queste casupole, un monazzeno, per vivere lontano da sguardi indiscreti la sua storia d’amore con Rossellini.
Terra di miti, terra di santi scaraventati dagli scogli, terra di streghe (dalla spiaggia del Fiordo, a notte fonda, partivano con le loro barche volanti le janare in cerca di avventure sulle coste del Cilento), Furore è anche terra del vino. La vite è coltivata soprattutto a “pergolato” e spesso piantata sulle pareti rocciose verticali, a 500 metri a picco sul mare. C’è una cantina famosa, quella di Marisa Cuomo, che produce vini, dice l’ex sindaco Raffaele Ferraioli, “capaci di buttarti dentro tutto il sole e tutta l’allegria che hai sulla pelle”. Vini che crescono da uve aggrappate alla roccia a strapiombo, tra giardini, terrazzi e pergolati, poggi e tornanti che dirupano a mare, muri a secco, chiese e campanili svettanti e cupole arabeggianti. Una vertigine di panorami immersa in una luce senza suoni, sospesa, irreale e segreta come una favola”.
Sorapiss - Auronzo di Cadore @luce-bravo.jpg
Spostiamoci più giù, per camminare tra le magnifiche faggete e, a quote più alte, tra i pini loricati del Parco nazionale del Pollino, un’area protetta tra la Basilicata e la Calabria che consente percorsi infiniti di trekking. Il Pollino è la montagna più alta del Sud, l’unica che in condizioni meteo ottimali consente di vedere tre mari. Si fanno escursioni in una natura affascinante, tra borghi solitari aggrappati ai monti e la presenza possente dei pini loricati, alberi monumentali che stagliano i loro contorni sullo sfondo di cieli, nuvole e montagne. Hanno una corteccia ruvida come una corazza, dalla quale prendono nome (lorica era la corazza indossata dai soldati romani). Quattro sono i borghi da vedere. Morano Calabro, con le case strette le une alle altre e appoggiate al colle, abbraccia con lo sguardo il versante calabrese del Pollino, qui come altrove presenza ineludibile grazie ai suoi 2248 metri di altitudine. È questa, da tempi immemorabili la montagna sacra di Apollo, il dio che le ha donato il nome. L’aroma dei boschi tocca la pietra degli archi e dei torrioni, entra nella maglia urbana, fitta e intricata, che fa di Morano uno dei centri storici più suggestivi della Calabria: un presepe di architettura povera degradante verso il basso, e un intrico di stradine che salgono verso il castello. Civita (Cifti in albanese) è un borgo di origine greco-albanese, in felice posizione tra il Pollino (si trova sul versante sud-est del Parco) e il mar Jonio. Nasce nel 1471 quando arrivarono su questi monti gli Arbëreshë, provenienti dall’Albania sotto la guida del principe guerriero Giorgio Castriota SkanderbergI profughi lasciavano le coste dei Balcani per sfuggire all’invasione ottomana. Aggrappato a un costone di roccia che sovrasta le Gole del Raganello, una delle maggiori attrattive del Parco, il borgo ha mantenuto una forte identità etnica e la lingua e le tradizioni degli Arbëreshë. Aieta è arroccata sulla collina, con un gran palazzo rinascimentale, chiamato anche “castello”, che ci si sorprende di trovare in un luogo così fuori mano, lontano da Firenze e dalle irradiazioni dell’arte cinquecentesca. Sembra che a volere queste architetture sia stato un militare originario di qui, che aveva viaggiato in Europa al seguito dell’imperatore Carlo V. Infine Viggianello, piccolo borgo d’impronta bizantina e normanna, a valle del quale si trova la sorgente del fiume Mercure, luogo idilliaco da esplorare insieme alla riserva faunistica del cervo e all’orto botanico. I pini loricati a monte del paese e i pianori che in autunno indossano tutte le sfumature di colore, svelano la natura di questa montagna, celata nella sua asprezza, ma pronta ad accogliere il visitatore.
E così, l’autunno ha trovato i suoi luoghi: quelli che vedete fotografati in queste pagine e altri - come due romantici laghi di montagna, quello di Tovel nelle Dolomiti di Brenta e quello di Sorapiss nelle Dolomiti Ampezzane - che restano nei ricordi di giornate smaglianti, di epopee del foliage cui abbiamo assistito nei mattini limpidi o inquieti di ottobre, il più bello dei mesi, come scrisse Guido Ceronetti.