"...un luogo che evoca durata e lentezza, permanenza e silenzio, un andare avanti e indietro
che non ha una meta, ma permette di contemplare, indugiare, perdersi, ritrovarsi..."
Turismo: durata e lentezza
Di Claudio Bacilieri Direttore di Borghi
Molti osservatori concordano sul fatto che, dopo la pandemia, viaggiare non sarà più come prima. Ad esempio, è finita, o perlomeno si è attenuata, la fascinazione per l’esotico: l’impossibilità o il timore di prendere un aereo hanno fatto scoprire il vero esotismo, che non è lontano da casa. Non c’è bisogno di andare a Sharm El Sheikh o a Phuket per ritemprarsi dalle fatiche o dalla noia del lavoro o per vivere un’avventura: di questi non-luoghi (alberghi internazionali, cibo mondializzato, contatti scarsi con gli abitanti del posto) in genere non restano che le foto mandate col cellulare agli amici, i quali dopo la terza o quarta immagine cominciano a sbadigliare.
L’esotismo aveva un senso quando consisteva nel cercare la via che porta alle origini, come ha fatto Claude Lévi-Strauss scrivendo nel 1955 Tristi tropici. Ma oggi che ogni parte del mondo è già stata indagata, anestetizzata e messa sul mercato, i tropici tornano tristi come mai prima. Tutto è déjà-vu. Paradossalmente, come nella Lettera rubata di E. A. Poe dove ci si affanna a cercare una lettera compromettente che non si trova perché nascosta nel posto più ovvio, dove nessuno guarda, i luoghi meno visti sono quelli più vicini a noi, dove mai ci è venuto in mente in andare. Il cosiddetto “turismo di prossimità” non è che la scoperta di un “qui” che è più lontano del “là”.
Per questo quasi vent’anni fa scrivevamo che i borghi sono l’Altrove a due passi da casa. Da varie ricerche, emerge che nell’immaginario degli stranieri l’Italia appare come un insieme ben articolato di borghi e città d’arte dove la storia è presente a ogni passo, dove si mangia bene e la gente accoglie il visitatore con una cultura millenaria dell’ospitalità. È proprio questa conformazione storico-topografica a rendere attrattivo il nostro Paese, che meno di altri si presta al turismo di massa, poiché l’offerta è virtualmente parcellizzata in moltissime destinazioni: non c’è quasi angolo d’Italia che sia privo di interesse turistico. Che l’Italia dei borghi sia presente nell’immaginario collettivo estero lo dimostra anche la scelta di acquistarvi una dimora da parte di molti vip, da Sting a George Clooney, da George Lucas a Meryl Streep. Appare dunque ovvio che le limitazioni alla mobilità imposte dall’emergenza sanitaria riportino alla luce quel Paese dimenticato, fatto di borghi, di splendidi centri storici e di paesaggi affascinanti, ben noto agli stranieri ma che i nostri connazionali vedono spesso, dal punto di vista turistico, come un ripiego, ovvero l’impossibilità di andare altrove.
Ora, non si tratta di proporre vacanze autarchiche dettate dall’ansia da Covid-19, ma di capire se i borghi dopo la pandemia possano davvero diventare la nuova frontiera del turismo, e se il turismo nei borghi rappresenti una svolta nel segno della sostenibilità ambientale, cioè la fine del turismo di massa. Le vacanze nella natura, la scelta del camminare per dilatare ogni attimo e lasciarsi alle spalle i problemi, il successo del cicloturismo, la tendenza a un felice autoisolamento in luoghi remoti, sembrano andare in questa direzione. La rivalutazione del grande patrimonio dell’Italia rurale, la riscoperta dei borghi dopo circa mezzo secolo di oblio, lo sviluppo del “turismo di prossimità” con vacanze anche di pochi giorni e non troppo distanti da casa, indicano che è in atto una trasformazione, certamente accelerata dagli effetti del Coronavirus. I borghi, la campagna, la montagna, i luoghi meno affollati assicurano vacanze in sicurezza nell’età dell’ansia, ma per diventare la nuova frontiera del turismo, finita l’emergenza, c’è bisogno di una rivoluzione culturale.
Nel suo libro sul nomadismo, Michel Maffesoli scrive che” viaggi, turismo, ritiro, periodo di riposo, ‘pause’ di ogni tipo, tante sono le occasioni diverse in cui si ‘mollano gli ormeggi’, in cui ci si esilia e si scappa via allo scopo di restituire sapore a quanto, sotto i violenti colpi della routine, ha finito col perderlo del tutto”. Per ritrovare il “sapore” della vita occorre recuperare la “dimensione creativa” del tempo. Per Bergson e altri filosofi il tempo è continuità nella quale il passato convive con il presente. Il tempo, cioè, è durata, non si esaurisce nell’istante, come invece accade nel nostro mondo iperproduttivo dove l’imperativo del lavoro ci porta ad accelerare sempre di più, a consumare tempo senza viverlo. Il filosofo coreano Byung-Chul Han parla, a questo proposito, di “tempo senza profumo”, un concetto applicabile anche al turismo che, se è senza profumo, non segna una discontinuità con il tempo del lavoro. Sapore, profumo e bellezza sono i tre elementi che danno senso al viaggio e alla vacanza. I borghi, per come sono fatti, per ciò che rappresentano (spesso, per descriverli, si dice che “il tempo si è fermato”), sono luoghi dove il tempo profuma, perché “non scorre né passa”.
Il passato si deposita sul presente come una patina che avvolge cose, persone e case rendendo il tutto struggente, dunque più bello (nell’estetica zen questa malinconica bellezza che si accentua con l’avanzare dell’età si chiama Wabi-sabi).
Per Byung-Chul Han il tempo che profuma è legato alla durata, alla lentezza, alla possibilità di indugiare sulle cose. Se andiamo di fretta, moriamo anche più in fretta. “La velocità è direttamente responsabile della perdita di senso”. La lentezza dà invece spazio al pensiero; camminando, ad esempio, si ha tempo di osservare, riflettere; ci si rende conto di come ci si stanchi al dover rispondere ai mille stimoli, messaggi, comunicazioni, che ci distraggono dalla nostra ricerca di felicità. Andare in giro placidamente, vagabondare, ricordare, oziare, svuotare la mente dalle cose inutili, ridare profumo al tempo (“al profumo del pomeriggio segue il buon odore della sera e anche la notte emana il suo proprio aroma”) utilizzando meglio il tempo libero, in modo che la vita attiva sia maggiormente pervasa dalla vita contemplativa, come accadeva nel Medioevo. È il dio delle piccole cose che ci guida per i borghi, ci porta in una locanda, in una trattoria, in una bottega, su un sentiero di campagna, in un piccolo museo o nella penombra di una chiesa. Si fa presto a ritrovare se stessi alla fine di una settimana di lavoro: la costellazione di borghi intorno alle città offre i migliori rifugi, i migliori punti di fuga.
Il “Sentiero di campagna” che appare nella filosofia dell’ultimo Heidegger è proprio questo: un luogo che evoca durata e lentezza, permanenza e silenzio, un andare avanti e indietro che non ha una meta, ma permette di contemplare, indugiare, perdersi, ritrovarsi, camminare verso un tempo diverso da quello del lavoro. Il sentiero di campagna è molto meglio di una vacanza alle Maldive. I borghi, le aree interne e rurali, le montagne e tutta la provincia italiana diventeranno la nuova frontiera del turismo quando saremo così stanchi da non poterne più di essere presenti, disponibili, collegati, connessi in ogni momento. Allora la vacanza acquisterà il proprio significato, che è quello di una “assenza” (dal latino vacatio) da qualcosa di gravoso. E anche quando i borghi si ripopoleranno grazie al telelavoro, continueranno ad incarnare l’estetica della sparizione: saranno i compagni misteriosi delle città, gli angoli belli in cui nascondersi, sparire, appartenere al tempo dell’assenza di tempo. I posti in cui perdere tempo per recuperare quello che si è consumato nel lavoro e nell’accelerazione di tutte le cose; i luoghi dove si può finalmente essere stanchi. “Chiedo di essere ricondotto in una regione dove sia possibile essere stanchi”, scriveva Maurice Blanchot. Il turismo può allora contemplare un nuovo rapporto tra città e campagna, eleggendo il borgo, il suo paesaggio, la sua cucina, i suoi abitanti, a luogo della seduzione, contrapposto e insieme collegato a quello della produzione. Lavoro/ozio, accelerazione/lentezza, presenza/assenza, vita attiva/vita contemplativa, disincanto/incanto: in queste coppie di opposti si gioca la possibilità di trasformare i turisti in visitatori e i borghi in un nuovo immaginario da ripopolare, alla frontiera del mondo che cambia dopo l’assedio del Coronavirus.