Zapping
Frammenti semiseri di cronaca televisiva
di Luigi Capano
Un tempo si chiamava televisione spazzatura. Oggi si predilige il termine dal suono più fluido e più snello trash. Siamo o non siamo anche noi una colonia linguistica ( e non solo) americana? Ma la sostanza non cambia: anche in Tv, come per le strade di Roma, il pattume non manca.
Ecco un esempio estrapolato da una trasmissione recentissima. Nel corso dell’ultima puntata di Quarto Grado, un programma giornalistico di Rete4 che si dedica per lo più all’approfondimento di casi di cronaca nera, l’attuale conduttore, il giornalista Gianluigi Nuzzi intervista la madre di un giovane appena assassinato nella periferia di Roma. E le chiede, con una volgarità da moralista bassifondaio: “Se la sentirebbe di perdonare”? D’acchito avremmo volentieri permutato il cranio e i testicoli del triviale giornalista nella speranza che il repentino viraggio del suo punto di vista gli avrebbe giovato alla rete neuronale.
Questo giornalismo di mezza tacca è tutt’altro che episodico purtroppo. Ma, ci duole riconoscerlo, la volgarità del perdono è una pratica pericolosamente diffusa, potremmo dire epidemica. Ne è affetta – lo vediamo ogni giorno – la Magistratura tanto quanto la legislazione. Ne sono portatori insani – con tutti i danni mediatici che ne conseguono - i vertici della Chiesa Cattolica, forse i principali untori della “perdonite”, variante diarroica del più nobile perdono. Assieme, s’intende, a certa sinistra arruffona ed eticamente irresponsabile che, purtroppo, ha ancora un peso notevole nell’orientamento morale dell’opinione pubblica (un eufemismo per dire “lavaggio del cervello”, abluzione lustrale quotidiana in ogni democrazia che si rispetti). Abbiamo intercettato, nel mare magnum del web, il blog di un giovane sacerdote, Don Paolo Zambaldi che, riflettendo sul perdono nella tradizione ebraica - che non è in linea con la moda vigente - cita il Rabbino capo della comunità romana Riccardo Di Segni:
“Il perdono è una riparazione morale dell’identità; è l’acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore. Se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia. Il perdono, come processo morale, non elimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e anche ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto». Ed aggiunge il sacerdote: “Secondo la tradizione ebraica, il piano divino e quello umano, relativamente al perdono, rimangono nettamente distinti: il perdono divino infatti riguarda unicamente quei peccati che l’uomo compie nei Suoi confronti; i peccati rivolti verso altri esseri umani non vengono perdonati sino a quando colui che è stato offeso abbia perdonato a sua volta”. Segue l’inevitabile riferimento alla Shoah e prosegue Don Paolo: “Vi sono due ordini di ragioni per non perdonare (secondo tradizione ebraica): una di ordine metafisico, per cui non è possibile perdonare; e una di ordine morale, per cui non dovremmo perdonare. Solo chi ha subito un’offesa può perdonare, e la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime”. E conclude citando il filosofo Levinas. “Nessuno, nemmeno D., può sostituirsi alla vittima. Il mondo in cui il perdono è onnipotente diviene inumano”.
Abbiamo il sospetto che Papa Francesco e i suoi sottoposti abbiano molto da apprendere dai loro “fratelli maggiori”. Per amore di completezza e per dare il nostro piccolo contributo al dialogo ecumenico – anche noi in fondo siamo à la page – abbiamo catturato in rete (L’Indro, quotidiano indipendente) anche l’intervista all’Imam nippo-italiano Yahya Pallavicini, vice presidente della COREIS (Comunità religiosa islamica italiana) sul tema del perdono nell’Islam, da cui estrapoliamo una sentenza apodittica: “L’uomo saprà se e quanto essere perdonato da Dio soltanto il Giorno del Giudizio”.