Roma - Parco della Musica
Il meglio deve ancora venire
Sipario calato sulla Festa del Cinema di Roma 2019
di Margherita Lamesta
“Il meglio deve ancora venire” non è solo l’epitaffio della tomba di “The voice”, ma anche il titolo di una raffinata commedia degli equivoci francese in concorso alla Festa del Cinema, che parla di morte e malattia. Controcorrenti rispetto ad una società edonista, i due autori, Delaporte e La Patelliére, si sono ispirati ai fatti accaduti nella loro vita personale e professionale durante la tournée di “Le prénom”, rafforzati dalla lettura de “La cura Schopenhauer”, e hanno dato fiducia agli spettatori, offrendo un cambio di prospettiva su temi poco frequentati dal genere.
È un dramedy sull’amicizia, sentimento certo contrariamente a quello d’amore, nell’ottica di un gioco di protezione generoso, surreale ed esilarante. Ribaltoni, scambi, gesti maieutici convergono verso un finale a doppio filo, prima poetico e drammatico, poi, leggero e proiettato in avanti. Non c’è dissacrazione nell’andamento della pellicola, poiché ridere di quel che spaventa è piuttosto una protezione dallo squilibrio che un dolore troppo grande può infliggere. Il ritmo fluido è sostenuto da dialoghi sapienti e trova il giusto respiro nella coppia carismatica Luchini/Bruel. Aggrappato al suo passato, ossessivo e morigerato il primo, infantile e seduttore l’altro, sempre alla ricerca dei piaceri, riusciranno, ognuno a proprio modo, a lasciarsi attraversare reciprocamente, fino a fare i conti con le proprie ombre secondo una ritrovata responsabilità.
E ancora di amicizia tratta “438 giorni”, il film di Jesper Ganslandt, finanziato e supportato dallo Swedish Film Institute, sul giornalismo d’inchiesta. Due colleghi imprigionati ingiustamente in Etiopia con l’accusa di terrorismo, dal 2011 al 2012, che per amore di verità affrontano rischi al limite della legalità, resistendo alle torture grazie alle loro forti identità linfatiche per il sentimento d’amicizia che li lega. "È uno studio su come ci vediamo costretti a mettere in discussione i nostri ideali, quando ci troviamo di fronte a una realtà molto più complessa di quella che conosciamo" – spiega il regista. Ma è anche un inno al coraggio, alla dignità e soprattutto è un monito sull’importanza della libertà di stampa e su quanto sia facile soffocarla con un uso manipolato delle immagini.
Il mondo d’immagine e immagini in cui viviamo rende sempre più urgente, dunque, la capacità di decifrarle, grazie alla quale potremmo essere meno vulnerabili e più protetti dalle manomissioni – ha spiegato Bernard Tavernier. “A scuola il cinema avrebbe dovuto essere insegnato già da molto tempo”. E ancora, “i Paesi non soccomberebbero se non avessero paura di guardare il passato, perché questo avrebbe conseguenze importanti per la letteratura e la filosofia” – ha concluso l’autore de “L’orologiaio di Saint-Paul”. Agli inizi dialettico nei confronti della Nouvelle Vogue, poi tra i suoi eredi, oggi il cineasta francese auspica il recupero di uno sguardo più articolato sul cinema e si schiera a favore di uno spirito di condivisione, per cogliere la compagine artistica non di rado presente anche nel cinema commerciale. Lo è stato per Minnelli e Hawks, ad esempio.
E l’eredità della Nouvelle Vogue sul cinema mondiale, con i suoi ideali di libertà e autorialità lontani da un cinema inteso come industria, tuttora viva – si pensi a Tarantino - spinge, in controtendenza, a rivalutare proprio l’importanza della critica, che paradossalmente ha visto nel tempo ridurre sempre più il suo spazio. “La riflessione sullo stato presente dei registi aiuta i registi” – ha affermato Olivier Assayas in conferenza stampa, prendendo le distanze da una “critica culinaria” fatta di stelline. Con la rete si vede più cinema, è più facile scegliere ciò che meglio si confà a noi e costruire un proprio pensiero, perciò la lettura saggistica del cinema, del suo stato e dei registi è qualcosa di cui si ha ancor più bisogno al giorno d’oggi – ha concluso Assayas.
Ed è In questo ping pong fra cinema d’autore e cinema d’intrattenimento che s’inserisce il documentario “Cecchi Gori – una famiglia italiana” sull’arcinoto duo Mario e Vittorio, diretto a quattro mani da Simone Isola e Marco Spagnoli. Padre e figlio, in mezzo secolo di successi tra artistici e commerciali, hanno segnato un’epoca irrimediabilmente conclusa, quella dei grandi produttori. Oscar, Nastri, David, Leoni sono il fil rouge di un filmato piuttosto onesto. Il superstite Vittorio racconta e si racconta, fra materiali inediti, ricordi e aneddoti che testimoniano un pezzo di storia del costume italiano e di un popolo sempre pronto a salire sul carro del vincitore. Gli sguardi benevoli di pena della sua Firenze oggi non ricordano più la voce accusatoria e inferocita, che la stessa moltitudine alzò di fronte al suo arresto e all’esonero dalla Fiorentina. È malato Vittorio ma dà prova di resilienza sotto la guida dei due registi, che non tacciono anche le molte ombre cadute sulla sua stella brillante.
Ombre che hanno offuscato anche la bimba prodigio e star Judy Garland interpretata da Renée Zellweger in “Judy”, il biopic di Rupert Goold ben lontano dalla purezza di Dorothy. È una Garland fragile come una farfalla con scarso senso della realtà, che ritrova forza e se stessa solo sul palco e nella voce. Di gran livello l’interpretazione del Premio Oscar - tranne un cliché nel movimento delle labbra sempre presente nelle sue interpretazioni – ancor più per l’energia e il talento dei pezzi cantati in presa diretta. I lati messi in luce dal regista, tuttavia, compongono una storia dal potenziale disperso che si avvita perlopiù sugli stessi temi: alcolismo e insonnia.
Altrettanto ricco di materiali inediti anche il documentario di Antonello Sarno “Carlo Vanzina. Il cinema è una cosa meravigliosa”, da cui emerge un uomo gentile e acuto, professionalmente impensabile senza suo fratello Enrico, l’intellettuale, lo sceneggiatore, il produttore. Insieme hanno fotografato i difetti della borghesia italiana, proprio come Sordi più di sessant’anni or sono, insuperabile nei panni di Nando Mericoni di “Un’americano a Roma” diretto da papà Steno. Negli anni il linguaggio comico, divenuto meno sagace e più ruffiano, ha costruito un cinema d’intrattenimento di facile presa, fortunatamente non sempre dai toni grossolani o di cattivo gusto. La signorilità che contraddistingueva Carlo, infatti, ha reso i suoi film, oggi, delle opere di culto, riconciliate anche con quella parte di critica un tempo osteggiante.
E sul filo delle ellissi temporali, Cristina Comencini con “Tornare” conclude la 14esima edizione della Festa. La regista replica il sodalizio con Giovanna Mezzogiorno, che interpreta una quarantenne in cerca di verità e risposte alla propria esuberante vitalità adolescenziale. Malgrado il mestiere, tuttavia, la storia si articola male, producendo tessere di un mosaico onirico a specchio dell’inconscio, che aprono a suggestioni spesso inconcludenti e non fanno decollare il racconto. “È il mio film più libero” – ha dichiarato la regista. Peccato non sia arrivata anche agli spettatori questa sensazione di respiro libero.
La libertà, un diritto di tutti, purtroppo non è così scontata. Non lo è stato per Santa Scorese, la giovane prossima alla consacrazione a Dio, perseguitata da uno stalker per tre lunghi anni e uccisa sotto casa nel ‘91. È la trama di “Santa subito”, il documentario diretto da Alessandro Piva, vincitore del Premio BNL.
La vicenda del tragico fatto di cronaca, consumato fra Bari e Palo del Colle, è un lavoro di taglio piuttosto televisivo con il merito di un buon crescendo, che rivela il suo drammatico culmine solo verso il finale. Il martirio di questa nuova Santa Maria Goretti, Serva di Dio, testimoniato da chi l’ha conosciuta, chiude il sipario sulla Festa del Cinema di Roma tra le solite luci e ombre anche di tipo organizzativo. Resta negli spettatori, tuttavia, la rabbia per la storia di una morte annunciata dalle tante denunce sporte, con il reato di stalking introdotto nel codice penale solo diciotto anni più tardi. Per contrappasso, tuttavia, la kermesse capitolina conferma l’importanza del cinema - d’intrattenimento, di denuncia o d’autore – come strumento orientato verso la costruzione o il risveglio delle coscienze, non meno importante del ruolo svolto da letteratura, filosofia e teatro, e magari con l’ottimismo che Il meglio possa tornare o debba ancora arrivare.