2020: Anno Internazionale delle Lingue Indigene
Il contributo dei missionari comboniani allo studio e alla preservazione
delle lingue locali nella loro opera di annuncio del Vangelo
Roma -
Lingue, Missione, Memoria
Una mostra bibliografica divisa in sei sezioni: editoria storica, testi, foto, video
che mostreremo nei numeri successivi del giornale
accompagnandola fino al suo termine di esposizione a Roma
Prima parte - Introduzione
Il 2019 è stato proclamato dall’ONU Anno Internazionale delle Lingue Indigene e, sul suo portale, si legge:
«Le lingue svolgono un ruolo cruciale nella vita quotidiana delle persone, non solo come strumento di comunicazione, educazione, integrazione sociale e sviluppo, ma anche come deposito per l’identità unica di ogni persona, la storia culturale, le tradizioni e la memoria».
Inoltre Papa Francesco, per celebrare il centenario della Lettera apostolica di Papa Benedetto XV Maximum Illud (30 novembre1919) - considerata la magna charta dell’attività missionaria in epoca contemporanea - ha voluto che il mese di ottobre 2019 fosse un Mese Missionario Straordinario.
Questi due eventi ci hanno stimolato a chiederci quale sia stato l’apporto dei Missionari Comboniani nel loro compito di evangelizzazione, allo studio, preservazione e arricchimento delle lingue indigene, in particolare delle lingue di quei popoli in Africa, soprattutto nel Sud Sudan e in Uganda, con cui i missionari hanno vissuto, lavorato e ai quali hanno donato la propria vita.
Annuncio del Vangelo e studio delle lingue, infatti, sono andati di pari passo. Scriveva il missionario comboniano Giovanni Vantini: «In passato, quando la glottologia era ai primi passi, i missionari furono pionieri nello studio delle lingue in Sudan. La prima spedizione missionaria cattolica (1851 ) lasciò quadernetti con liste di vocaboli denka e bari, abbozzi di grammatiche, preghiere. Mons. Knoblecher e p. Morgan raccolsero ciascuno seicento vocaboli denka nel 1851-53. I padri Lanz, Beltrame, Melotto e Comboni composero una grammatichetta della lingua denka, la prima in ordine assoluto, e un vocabolarietto italiano-denka di tremila parole (1859)».
L’incarnazione del Vangelo nella cultura locale incomincia proprio dalla lingua, porta alla ricchezza della cultura del popolo, veicolo indispensabile per trasmettere il messaggio di salvezza che è stato affidato al missionario.
Il vasto contributo dei Missionari Comboniani spazia su diversi campi: dagli studi linguistici ed etnologici di specialisti come P. Crazzolara, S. Santandrea, M. Spagnolo, A. Nebel, B. Kohnen, F. Giorgetti (quest’ultimo con i suoi fondamentali studi sul sistema di parentela tra gli Azande); lavori che si accompagnano alla traduzione negli idiomi locali di catechismi, libri liturgici, testi scolastici, raccolte di racconti popolari, proverbi, miti, ecc.
Nella prima metà del secolo scorso i Missionari Comboniani avevano prodotto - oltre a studi specialistici disseminati in vari articoli per riviste e libri - 63 grammatiche, 88 vocabolari, 114 catechismi, 23 libri di Storia Sacra, 54 libri di preghiere, 137 testi scolastici: sillabari, libri di lettura, aritmetica, storia, geografia, igiene, ecc. Questa vasta produzione, è importante sottolinearlo, non è stata il frutto di singoli religiosi, per quanto competenti ed eruditi possano essere stati, ma di un lavoro che si nutriva del contatto quotidiano con la gente, delle domande poste, dell’ascolto attento e dell’osservazione appassionata, cioè di un dialogo condito da stima e apprezzamento per le popolazioni del luogo «…interrogando non solo quelle biblioteche viventi che sono gli anziani e i capi, ma qualsiasi persona in grado di spiegare un dettaglio o la sfumatura di un termine, annotando con la matita su un quadernetto due, cinque, dieci versioni dello stesso argomento, della stessa parola », commentava p. Santandrea. Sarà poi la nuova generazione di studiosi locali che proseguirà e perfezionerà il lavoro iniziato dai missionari.
La mostra bibliografica è divisa in sei sezioni: catechismi, grammatiche/dizionari, testi di Storia Sacra, testi liturgici, testi educativi e musica. Naturalmente, è stato necessario operare una selezione ed esporre solo alcuni dei numerosi e preziosi materiali presenti nella Biblioteca centrale e nell’Archivio dei Missionari Comboniani di Roma.
L’intento è stato quello di offrire una gamma di testi nelle traduzioni in lingue locali cercando di descriverne il gruppo etnico, la posizione geografica dello stesso e l’autore, quando si trattava di grammatiche e dizionari.
La mostra è corredata da una selezione di immagini d’epoca affiancate da testimonianze dei missionari e da mappe storiche dei territori dove questi operavano.
L’opera di traduzione, com’è noto, non è mai una cosa semplice e meccanica; dietro esiste un intenso lavoro di studio e d’interpretazione che non deve “tradire” troppo il significato del termine originale da tradurre. Abbiamo accennato, allora, ad alcune difficoltà pratiche (sia linguistiche che teologiche) che i missionari hanno affrontato nella loro opera. Così scriveva, ad esempio, p. S. Santandrea circa la difficoltà di rendere la parola ‘Dio’ nella sua accezione cristiana:« Studiando le ‘grandi’ lingue del Bahr el Ghazal, m'ha colpito da sempre la povertà di termini specifici per indicare le principali realtà religiose e, al contrario, la relativa ricchezza che s'incontra in diverse ‘piccole’ lingue. Prendiamo ad esempio il Luo, la lingua più parlata (geograficamente) nell'Africa Centrale a nord dell'Equatore, è ricca di vocaboli, flessioni, locuzioni in moltissimi settori, ma non in quello religioso. Ecco i termini che continuamente ricorrono, scarsi di numero e di svariati significati: Dio = jwòk ; spirito (buono e cattivo) = jwòk; spirito ombra dei morti = tibo; anima d'uomo vivo = wèi, sostituìbile all'occorrenza da altri termini quasi sinonimi. Per indicare Dio, senza tema dì ambiguità, bisogna accompagnare il termine jwòk con appropriati appellativi o situarlo nel giusto contesto».
È indubbio che il compito di traduzione di una lingua faccia sì che questa si arricchisca di nuovi termini, ma non solo: esso stimola le persone (sia i missionari che le popolazioni locali) ad incontrare nuovi mondi culturali e religiosi favorendone l’assimilazione dei valori ma anche relativizzandone le forme marginali, incoraggia a superare le barriere dell’etnocentrismo e ad ampliare i propri orizzonti mentali. L’incontro diventa così fecondo scambio interculturale.
Ci sembra che le parole di un missionario comboniano, p. Roberto Pazzi, specialista della lingua Ewè del Togo, descrivano in modo sublime questo sforzo di apprendimento e di traduzione da parte del missionario: «Per noi occidentali oggi, la conoscenza di un linguaggio africano richiede anni di impegno: studiare e praticare la lingua, farsi iniziare al simbolismo delle diverse forme letterarie, interrogare gli anziani circa le tradizioni di cui sono i custodi…Questa iniziazione al «linguaggio» africano non avviene che attraverso la rinuncia a tante forme esterne della civiltà occidentale, che si sono imposte a noi inconsciamente con la tenacia di un mito. È duro crocifiggere la propria indipendenza nell'esprimersi, per assimilare una sensibilità diversa, e riconoscere i limiti, spesso angusti, dei nostri criteri scientifici ‘oggettivi’, per apprezzare una cultura dove il pensiero si svolge nel simbolo, e la parola porta una virtù incantatrice».