#220 - 9 giugno 2018
AAAAA ATTENZIONE questo numero resterà in rete fino alla mezzanotte del 3 maggio quando lascerà il posto al numero 351. - BUONA LETTURA - ORA ANTICA SAGGEZZA - Gli angeli lo chiamano piacere divino, i demoni sofferenza infernale, gli uomini amore. (H.Heine) - Pazzia d'amore? Pleonasmo! L'amore è già  in se una pazzia (H.Haine) - Nel bacio d'amore risiede il paradiso terrestre (Lord Byron) - Quando si comincia ad amare si inizia a vivere (M. de Scudery) - L'amore è la poesia dei sensi ( H. De Balzac) - Quando il potere dell'amore supererà  l'amore per il potere, sia avrà  la pace (J. Hendrix)
Racconto

Alla fine dei conti

Parte Terza

di Ruggero Scarponi

Parte Terza

Palombi parlando sottovoce mi chiese poi se volevo accompagnare mia moglie nel nostro appartamento per farla riposare in maniera più consona:

  • Grazie, Palombi, ma so che per nulla al mondo vorrebbe lasciare questo posto - e circondai con un braccio le spalle di Alba.
  • Ehhh! –sospirò Raimondi – Caro Lanfranchi, non è facile continuare. Per me non è facile. C’è di mezzo il male, non quello fisico; sebbene questo mi abbia quasi consumato oramai, ma mi sembra lieve, se confrontato con il male nella sua essenza più vera.
    Questi discorsi cominciavano a crearmi un senso di disagio e allora dissi:
  • Vuol dire maestro che il mio dramma conteneva elementi… tali…?
  • Non per colpa sua Lanfranchi. - si affrettò a dire.
    Qui l’uomo si arrestò di colpo. Portò incerto e tremante con la mano, il fazzoletto alla bocca e ve lo tenne premuto per alcuni lunghi istanti e poi riprese:
  • Non per colpa sua, le dico, mi creda. E nemmeno per colpa di quell’altro, Lercari, che reputavo amico. Come critico, tanto di cappello, uno che non si è mai fatto comprare e che il teatro lo conosceva veramente. Ma certo dopo quanto mi ha confidato lei stasera…come amico…lasciamo stare. Ma per tornare al motivo per cui l’ho fatta chiamare caro Lanfranchi le dirò:
    C’è di mezzo un sentimento che lei colse perfettamente nella sua opera.
  • Maestro, era una storia di malcelata invidia.
  • L’invidia! – Esclamò Raimondi sul cui viso si era disegnata una smorfia grottesca. E sollevandosi per quanto gli era possibile sui cuscini cercò quasi di urlare quella parola, come di un boccone repellente da espellere dalla bocca con disgusto.
  • L’invidia, l’invidia, l’invidia! – Urlava adesso, era fuori di se, gli occhi sbarrati come di fronte a uno spettro orribile. Intervenne Palombi.
  • Calmati, calmati, per amor di Dio non fare così Ottavio.
    Ma l’attore era di nuovo sprofondato nel divano più morto che vivo.
  • Chiedo scusa – mi disse in un orecchio Palombi – purtroppo da un po’ di tempo soffre di questi attacchi…e d’altronde non prende medicinali e non vuole medici, non so proprio come fare. Ahhh! Se ci fosse ancora la mia povera sorella!
    Da che ne intuii che il grande Raimondi doveva essere vedovo e ora che si stava avvicinando a un’età anziana, anche depresso.
  • L’invidia… – continuò Raimondi all’improvviso, riprendendo un tono di voce più naturale – l’invidia, - e dopo una pausa come dovesse raccogliere un pensiero - ma qui sta il bello, l’invidia non per chi ha di più, ma per chi ha di meno…l’invidia di una fortuna che improvvisamente venga a diminuire la distanza tra chi ha e chi non ha e…non importa che cosa, se cose materiali o…peggio qualità intellettuali, dello spirito.
  • Ma davvero Maestro quanto ho raccontato nel dramma aveva a che fare con una sua storia personale?
  • Le dirò caro Lanfranchi – rispose calmo – qualche cosa di me che nessuno conosce. No, non si schermisca, non le sto riservando un onore, piuttosto glielo debbo, di diritto. Un tributo a certe sue intuizioni. Le narrerò come andarono i fatti. Vede io sono nato primogenito in una famiglia medio borghese della provincia emiliana. Mio padre era uno stimato professionista e mia madre professoressa di matematica. In casa nostra il teatro era visto come il diavolo. Roba per sfaccendati e perdigiorno. Anche io la pensavo così. Chi invece ne era appassionato era mio fratello Giorgio. Appunto, un perditempo. Bocciato a scuola più volte riuscì a diplomarsi al liceo solo grazie ai buoni uffici di papà e mamma che in paese contavano qualcosa. Per il resto era un incostante, fatuo, amante delle cose effimere, sognatore, la classica pecora nera che ti capita in una buona famiglia. Dunque mentre mio fratello si sollazzava in sciocchezze di tutti i generi io mi laureavo in economia dopodiché mi impiegai facilmente come dirigente presso la ragioneria comunale. Accadde che una volta mio padre mi pregasse di tentare di convincere Giorgio ad abbandonare l’ultima fola che si era inventato per impiegarsi finalmente in un lavoro normale. L’ultima fola era appunto il teatro. Si era messo in testa di scrivere testi teatrali per commedie che nessuno avrebbe mai rappresentato. Per questo era finito alle costole di una compagnia che girava dalle nostre parti. Avendo qualche disponibilità economica pur di farsi accogliere da quei guitti era disposto a offrire bevute e cene nelle trattorie del paese. Ma poi, vuoi che fosse un bel ragazzo, vuoi una certa sua vena di timidezza malinconica…insomma avvenne che una ragazza della compagnia, s’intenerisse di lui. E Giorgio tutto contento me la fece conoscere il giorno che ero andato a parlargli come mi aveva pregato di fare nostro padre. Era una ragazza veramente speciale. Si chiamava Dolores, non era solo bella, era colta, intelligente e di grande sensibilità. Ricordo ancora che quando me la presentò ebbi una morsa allo stomaco. Non potevo credere che quell’imbranato di mio fratello potesse aver fatto colpo su una simile donna. Al confronto la ragazzetta che frequentavo a quel tempo mi apparve come una sguattera di fronte a una principessa. E così, invece di distogliere mio fratello dal teatro ci finii dentro anch’io. Con uno scopo preciso però e di sicuro meno nobile. Non volevo ammetterlo nemmeno con me stesso ma desideravo Dolores. Divenne un chiodo fisso. Una sera mentre assistevo alle prove di una commedia mi trovai a scambiare quattro chiacchiere con il regista. Restò colpito dalle mie osservazioni che ritenne profonde. M’ invitò a provare. Recitare mi fu quasi naturale. Sembravo nato per quel mestiere. Insomma mentre il povero Giorgio avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di calcare le scene in qualche modo io vi ero quasi trascinato di forza. In quel periodo subito dopo i primi successi cominciai a corteggiare Dolores e finalmente una sera che Giorgio si era assentato in uno dei suoi vani tentativi di farsi accettare un testo da un impresario in paese…- arrivato a questo punto Raimondi s’interruppe e sottovoce disse - la feci mia. Mia per tutta la vita. Gliela portai via a Giorgio e me la sposai. Mi sono goduto la sua donna Lanfranchi – disse scandendo lentamente le sillabe - e i successi sempre più vasti. Di teatro in teatro, di città in città. In Italia e all’estero. Sui giornali, in televisione al cinema. E Giorgio sprofondava sempre di più.
    Qui Raimondi s’arrestò di nuovo. Aveva parlato tanto e di seguito; era esausto. Si portò nuovamente il fazzoletto alla bocca. Ce lo tenne per un po’, poi chiese dell’acqua al cognato che gli porse un bicchiere. Ma tanto era ancora agitato dal discorso che gli tremò la mano facendo cadere un po’ del liquido in terra. Si riprese e stava per continuare quando mi feci scrupolo di consigliare:
  • maestro così si affatica. Prenda un po’ di riposo ora, le prometto che tornerò domani ad ascoltare il resto della storia.
  • Ma cosa ha capito Lanfranchi? – Ribatté con un mezzo sorriso – domani, domani, chi può dire…
    Ascolti invece, sia paziente, tanto oramai le ho rovinato la serata; non val la pena che gliene rovini un’altra. Dunque, mi sposai con Dolores, la sorella del qui presente Valerio. E fummo felici, insieme. Recitavamo anche insieme. Fummo felici, ma fino a un certo punto. In fondo non riuscii mai a perdonarmi la carognata che avevo fatto a mio fratello. E ne detti la colpa alla povera Dolores. Scaricai su di lei i miei sensi di colpa.
    Era come se volessi incolparla del tradimento nei confronti di Giorgio. Come non l‘avessi indotta io, in tutti i modi. E non volevo sentire ragioni. La incolpavo di avermi sedotto, per il solo gusto di collezionare amanti. Quasi fosse una femmina crudele e lussuriosa. Poveretta! Quanto l’ho fatta soffrire. E sì che m’amava veramente. Da allora in poi la mia vita cambiò.
    Cominciai a vivere come un miserabile. Non per quanto attiene alle cose materiali, le uniche sulle quali contassi, ma mi inaridii. Nei sentimenti. Più mi sentivo oppresso dal senso di colpa più mi facevo carogna e miserabile. Persi amicizie, la stima di Dolores che feci soffrire senza ragione, fino alla fine… e…
  • Basta, basta per carità Ottavio! – gridò Palombi vedendo il cognato crollare nuovamente sotto il peso dei ricordi e delle emozioni. Poi rivolto a me disse:
  • Ma guardi dottore che il maestro esagera. Si attribuisce colpe che non ha. E mia sorella è stata una donna felice insieme a lui, non è vero che abbia sofferto…
  • Taci! – gli ingiunse Raimondi che si era ridestato dal momentaneo mancamento – tu non sai nulla di certe cose. Caro Lanfranchi ho chiesto di lei non senza motivo. Lei nel suo dramma ha colto perfettamente il succo della malvagità insita nel sentimento dell’invidia. L’invidia non desidera ciò che non possiede, l’invidia più semplicemente desidera la distruzione degli altri. L’invidia ti rinchiude solitario in una fortezza fatta di risentimento, e livore. E questo io ho vissuto. Fino all’estremo. L’estremo, caro Lanfranchi è avvenuto qualche mese fa. Dopo tanti anni che non ci si vedeva ricevo una telefonata da Giorgio. Mi invita a prendere un caffè per parlarmi di una certa cosa. Non accenna a Dolores, non dice nulla di nulla, come ci fossimo lasciati la sera prima. Vado all’appuntamento. Lo trovo a un tavolo, malvestito, capelli arruffati, barba incolta. Sono le nove del mattino. Mi avvicino, capisco subito che ha bevuto, a distanza ne percepisco l’alito. Ha vicino una donnetta, dimessa, sembra brutta. Mi fa cenno di sedermi. Mi siedo imbarazzato. Io, curato fin nei dettagli, nella persona e nell’abito faccio stridente contrasto vicino a mio fratello. Comunque decido di ascoltare.
  • Grazie che sei venuto Ottavio – mi fa – non ti preoccupare, non ti rubo tempo. – poi come se ricordasse improvvisamente qualcosa – ti ho ordinato un the al latte. Mi sembra di ricordare che il the lo prendi al latte vero? – con la testa annuisco – comunque Ottavio, era solo per questa cosa…- poi di nuovo come poco prima, fa – a proposito, non ti ho presentato – e con lo sguardo indica la sua donna al fianco – Maddalena –
  • Maddalena – ripete la donna nell’atto di porgermi la mano, ossuta, ruvida, sciupata.
  • molto lieto, signorina – rispondo con garbo affettato - Raimondi.
  • Bene – riprende Giorgio, ora che ci siamo presentati…Scusa Ottavio se ti faccio perdere tempo.
  • Ma no, Giorgio – rassicuro, paziente – dì pure. Son venuto appositamente, no?
  • Già, già. Allora è per questa cosa come ti dicevo…Ah! - s’interrompe - Ecco il tuo the. Prendi pure con calma il the, poi parliamo.
  • Voi non prendete nulla? – dico, meravigliato che il cameriere abbia servito solo me.
    Giorgio scambia un rapido sguardo con Maddalena poi:
  • Beh veramente…
    Intuendo il problema mi faccio avanti.
  • Permettimi Giorgio di offrirvi qualche cosa. Dopo tanto tempo che non ci si vede, non vorrai togliere al tuo fratello maggiore questo piacere…
  • E va bene, - acconsente timido - allora noi prendiamo un cognac. D…Due, anzi, due cognac, grazie.
    Faccio cenno al cameriere che provvede immediatamente.
    Nel frattempo mi sono fatto curioso. Chissà di cosa vorrà parlarmi? - Penso.
  • E’ per questa cosa che ho qui in quest’involto Ottavio. -
    Giorgio prende l’incarto e me lo passa. Io lo soppeso poi:
  • Che roba è?
  • Niente, niente, una cosa mia. Se puoi, senza che ci perdi tempo; se puoi darci un’occhiata.
  • E’ un’opera d’arte! – s’intromette Maddalena. – Veramente. Un’opera d’arte. E’ unica, professore. Unica nel senso, unica copia.
  • Uhmmm! – mugugno
  • Davvero Ottavio – si schermisce Giorgio – se non ti pesa e se trovi tempo.
  • Lo legga professore. – s’intromette nuovamente Maddalena - Vedrà quanto è bello. A me lo ha fatto leggere e ho pianto fino alla fine. Però se lo ricordi che è una copia unica, non la smarrisca, la prego!
  • Non darle retta Ottavio – interviene Giorgio, imbarazzato, - dice così, perché non ti conosce...non sa …
    Con un gesto della mano mostro di non dare peso all’invadenza di Maddalena e poi:
  • Vedremo – rispondo vago e dopo una breve pausa fissando mio fratello negli occhi, quasi gelido – non aspettarti finta benevolenza da me. Se non va, te lo dico chiaro e tondo.
  • Va bene, senza impegno, però, senza impegno. – Risponde con negli occhi la trepidazione e forse il terrore.
    E’ così che me lo ricordo mio fratello caro Lanfranchi. “Senza impegno senza impegno†mi diceva. Poverello, “senza impegnoâ€. Insomma per farla breve, prendo il suo involucro e me lo porto a casa. In altri tempi nemmeno l’avrei sfogliato. Stavolta però non so perché, ma mi viene una curiosità. Mi siedo alla scrivania e apro l’incartamento. La prima sorpresa. Tanto sciatto l’involucro, tanto preciso il testo, battuto a macchina. Scritto con una vecchia macchina da scrivere, niente computer. Roba professionale però, Lanfranchi, mi creda, da mio fratello non me lo sarei aspettato. Mi immergo nella lettura. E’ una commedia. L’impianto è superbo. V’è ricchezza di caratteri, i personaggi ben delineati, la storia arguta, il linguaggio raffinato. Vi si riconoscono confluenze classiche, slanci innovativi. Tanto mi prende la lettura di quel capolavoro che non mi accorgo neanche che l’ora di cena è passata da un pezzo quando finisco. Una lettura alta mi lascia l’animo quieto, sereno. Come se la bellezza contenuta in quelle pagine fosse riuscita a scaldare il mio cuore di pietra. (Continua)
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