Alla fine dei conti
Prima parte
di Ruggero Scarponi
A quel tempo, sul finire del novecento, più o meno nel tardo autunno, mi ritenevo un uomo fortunato. Ero giunto all’agognato riposo dopo quasi quarant’anni di lavoro nell’amministrazione dello stato. E che altro avrei potuto desiderare? Avevo la fortuna di amare, riamato, una donna straordinaria, Alba, mia coetanea, ancora bella, ma addirittura bellissima in gioventù, quando l’avevo conosciuta. Avevamo due figli, Maria Sole, la più grande, sposata da due anni con un collega, un ingegnere torinese. Dopo il matrimonio si erano stabiliti nella città del marito, dove condividevano il lavoro in uno studio professionale. L’altro figlio, Michele era sul punto di laurearsi in giurisprudenza. Animato da un’intelligenza vivace era discepolo prediletto di più d’un professore.
Giungevo dunque alla pensione ancora giovane, soddisfatto come padre e come marito e pieno d’interessi che oltretutto l’intraprendenza di mia moglie aveva contribuito a stimolare. Era avvenuto, infatti, che quella brava donna avesse, per gioco o per investimento calcolato, acquistato un biglietto “gratta e vinci”. Una lotteria di queste in cui si deve rimuovere, dalla superficie del biglietto, con una moneta o altro oggetto abrasivo, uno spesso strato di vernice per scoprire una combinazione vincente. La dea bendata l’aveva gratificata non poco e con la modica spesa di un euro, ne aveva portati a casa cinquecentomila. Una somma che unita al mio non insignificante assegno vitalizio e ai risparmi di una vita era sufficiente a garantirci un’esistenza serena. Questo mi aveva permesso di dedicarmi con passione al mio hobby preferito, il teatro. Sia bene inteso, il mio interesse coltivato da oltre trent’anni era ben più che amatoriale e al mio attivo avevo la scrittura e la messa in scena di qualche dramma con, modestamente, discreti risultati sia di pubblico che di critica.
Avvenne che, proprio una sera mentre mia moglie ed io stavamo uscendo per recarci ad assistere a una commedia di nuova produzione, qualcuno suonasse alla porta. Era Angelino il figlio quindicenne del nostro vicino il rag. Palombi, Valerio Palombi. Angelino, appena ebbi aperto la porta, con gli occhi bassi e frettolosamente, quasi mangiandosi le parole, disse:
- Dottore, mio padre mi manda a dire se può venire subito di là . E’ urgente. – aggiunse.
Prima ancora di rispondere mi voltai. Alle mie spalle era sopraggiunta Alba.- ma – obiettai riluttante – veramente, stavamo uscendo…
- E’ urgente – ripeté con tono neutro il ragazzetto. - mio padre manda a dire che è urgente.
- Stiamo uscendo per andare a teatro – intervenne Alba facendo capolino tra me e lo stipite della porta. - faremo tardi…- Ma si capiva che la nostra resistenza non avrebbe sconfitto l’ottusa ostinazione del ragazzo.
Angelino, infatti, non disse nulla e restò in attesa, dritto e impalato sull’uscio.
Ci scambiammo Alba ed io un’occhiata perplessa. - Veniamo – dissi alla fine. – dì pure a tuo padre che veniamo. Tra un minuto. Il tempo di finire di vestirci.
- Allora dico che va bene. Dico che venite – concluse il ragazzo con il medesimo tono neutro di prima.
Certo doveva esser cosa grave, altrimenti il Ragionier Palombi, non ci avrebbe disturbato, allora non eravamo ancora in confidenza. E davvero si trattava di cosa grave, come appurammo dopo qualche minuto in casa del nostro vicino. Questi ci ricevette nell’ingresso e c’intrattenne un poco, prima di introdurci nel salotto.
Si respirava in quella casa un’atmosfera d’altri tempi. Come se fosse rimasta intatta da cinquant’anni, dalla prima volta che era stata abitata. Il pavimento, tirato a lucido, con le mattonelle di graniglia, disposte in modo da disegnare volute e cornici, mi ricordava certi ambienti della mia infanzia, la casa dei nonni o anche qualche studio di notaio o di avvocato. E nel mobilio si notava un gusto borghese d’inizio secolo con il grande attaccapanni di legno scolpito, sistemato dietro la porta d’ingresso, un lampadario in vetro di Murano, dal quale emanava una luce soffusa e una quantità di soprammobili distribuiti su varie mensole e per finire, sul tavolinetto da parete, campeggiava un grande telefono di foggia quasi antica.- Cari amici – disse con tono confidenziale e riconoscente il nostro vicino – vi sono grato per essere venuti. Si tratta di cosa riservata – continuò con voce sommessa – di là – ammiccando in direzione del salotto – c’è mio cognato, il marito di mia sorella – e rispondendo al nostro sguardo interrogativo – sta male. – pronunciò la parola sottovoce con l’aria di chi stia rivelando un segreto.
- Forse un dottore… – provai, cauto.
- Nessun dottore – esclamò alzando il tono, per poi riabbassarlo – non vuole saperne.
- Mi scusi – replicai leggermente contrariato – allora non vedo cosa possiamo fare mia moglie ed io…
- Ha chiesto di lei – rispose puntandomi l’indice allo sterno.
- Di me? Ci conosciamo forse? Non so nemmeno con chi ho il piacere…
- Lui la conosce, ha chiesto di lei.
- Se è così… – dissi annuendo rassegnato, mentre rivolgevo uno sguardo ad Alba quanto mai perplessa.
- Vi accompagno nel salotto, – riprese Palombi con fare cortese - vogliate seguirmi, per favore, mi spiace che non ci sia mia moglie, è al paese dai suoi, avrei avuto piacere di presentarvela.
Ci precedette nel corridoio le cui pareti erano tappezzate di foto inerenti al mondo del teatro. Vi si riconoscevano gli allestimenti di tante celebri rappresentazioni, i costumi, le locandine dei principali teatri italiani e stranieri e poi gli attori i registi e perfino il pubblico ripreso sorridente all’uscita, dopo gli spettacoli. Ne fui meravigliato e, posso confessarlo, piacevolmente sorpreso. Nonostante le preoccupanti premesse del nostro amico, non riuscii a distogliere lo sguardo da tutto quel materiale che in qualche misura mi era familiare. Indovinavo facilmente i drammi, le tragedie e le commedie di cui erano immortalati personaggi e scenografie, ma più di tutti mi colpì la frequente presenza in esse di Ottavio Raimondi, il grande interprete di tante pièces che avevo avuto l’occasione di applaudire in serate memorabili.
Palombi d’un tratto si arrestò di fronte a una porta con i vetri opacizzati a decorazioni liberty. Ebbe un momento di esitazione poi disse rivolto verso di noi: - E’ qui. Vogliate scusarmi un istante. Entro a vedere se tutto è in ordine.
Noi non capivamo. E poi tutta quell’aria di mistero. Un po’ ci faceva sorridere. Si, d’accordo che eravamo stati convocati per una cosa urgente e riservata, ma forse Palombi stava esagerando. - Questo mi sembra un po’ matto – mi sussurrò Alba all’orecchio durante il tempo che Palombi era sparito nel salotto. Riapparve dopo qualche istante sulla porta appena aperta.
- Potete entrare - disse quasi sottovoce accompagnando le parole con un cenno del capo – vi aspetta.
Istintivamente ci venne fatto di entrare a passi felpati quasi fossimo in una cripta o in una cappella, in religioso silenzio e attenti a non fare il minimo rumore.
Su un divano, addossato a una parete, vicino a una lampada bassa che lasciava il viso in ombra, stava semidisteso un uomo, così pensammo, non riuscendo, data la scarsa illuminazione dell’ambiente a distinguere chi fosse. - I Signori Lanfranchi – udimmo mormorare dal Palombi. Subito dopo, egli stesso, ci invitò ad avvicinarci e ad accomodarci su due sedie in fronte al divano.
L’uomo seduto biascicò qualche parola. - Accomodatevi, prego accomodatevi – rinnovò l’invito, Palombi, visto che eravamo rimasti in piedi e con un tono, che mi parve inteso più che altro a rassicurare il misterioso personaggio. Costui a un certo punto chiese al nostro vicino, di sollevare il lume.
Appena la luce schermata ne illuminò il volto riconobbi, sebbene a fatica, l’inconfondibile profilo aquilino di Ottavio Raimondi. Indossava una giacca da camera molto elegante e un foulard di seta annodato intorno al collo. Ma appariva stremato. Era giallo o forse pallido o grigiastro, terreo comunque; aveva l’aspetto di un moribondo. (continua)