#210 - 10 febbraio 2018
AAAAA ATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarr in rete fino alla mezzanotte del giorno sabato 30 novembre quando lascer il posto al numero 358 - BUONA LETTURA A TUTTI - Ora ecco per voi alcune massime: "Nessun impero, anche se sembra eterno, pu durare all'infinito" (Jacques Attali) "I due giorni pi importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perch" (Mark Twain) "L'istruzione l'arma pi potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo" (Nelson Mandela) "Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare" (Socrate) La salute non un bene di consumo, ma un diritto universale: uniamo gli sforzi perch i servizi sanitari siano accessibili a tutti. Papa Francesco Il grado di civilt di una nazione non si misura solo sulla forza militare od economica, bens nella capacit di assistere, accogliere, curare i pi deboli, i sofferenti, i malati. Per questo il modo in cui i medici e il personale sanitario curano i bisognosi misura la grandezza della civilt di una nazione e di un popolo. Alberto degli Entusiasti "Ogni mattina il mondo un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosit, vengano a impregnarlo dei loro colori" (Fabrizio Caramagna)
Fotografia

«Caroline parla, sorride, ci accarezza, dice a tutti delle parole affettuose e dolci.
Perde la memoria: tutto è confuso nella sua testa... Che grazia c’è nei malati e quali gesti singolari!»
(da una lettera di Gustave Flaubert a proposito di sua sorella morente)

Verona - Museo Africano

Magia e Medicina

Malattia, grazia e cura in Africa

Una mostra fotografica e un libro di Massimiliano Troiani

E' in corso a Verona, presso gli spazi del Museo Africano dei Comboniani, una mostra fotografica di Massimiliano Troiani dal titolo: Magia e Medicina - malattia, grazia e cura in Africa, giusta il titolo del poderoso volume dell'Editrice Effatà, dedicato appunto alla mostra. E' l'autore ad introdurci al tema.

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In Africa, scrive Troiani, l’universo della malattia e della cura si muove tra il mondo degli spiriti e quello “allopatico” di ospedali e dispensari, da dove gli antenati, comunque, non restano mai troppo lontano. Nel mezzo di questo scenario c’è il malato che, come ogni malato, recita suo malgrado un ruolo indossando una maschera che gli cambia la voce, la luce dello sguardo, la lentezza dei movimenti, la consistenza della pelle e gli disegna sul volto una grazia che solo chi aspetta la guarigione riesce ad esprimere. Il malato è in una scena da dove desidera e deve ritirarsi, per tornare alla dimensione sana dello star bene, perché la scena dello star male è solo provvisoria ed è più vicina alla morte.

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Il malato è lontano, i suoi occhi rivelano che è distante e ha lo sguardo di uno straniero che anela il ritorno da quel luogo lontano, che è la malattia, verso la patria protetta del benessere.
In Africa tutta questa teatralità si esagera: fotografare un dispensario africano significa trovarsi il più delle volte davanti a occhi che pongono domande, insieme all’ironica curiosità di trovarsi al centro di un’attenzione: «Mi farai un ritratto anche quando sarò guarito?» E la teatralità della malattia si esalta anche nei riti di guarigione, quando in un unico atto si mette in opera l’alchimia dei suoni, delle danze, dei canti, della possessione – a volte – e l’invito per i diversi spiriti a far la loro parte, ad intervenire per ristabilire l’armonia del singolo, oppure dell’intero villaggio o addirittura della natura, intesa come un’unica substantia; azioni che avverranno sempre alla presenza del mana come energia che tutto comprende, categoria del pensiero collettivo e fondamento del pensiero magico.

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È forse qui il discrimine tra la medicina “occidentale” e quella “tradizionale” (non solo africana): considerare il corpo da una parte e la mente (o spirito, per chi ci crede...) da un’altra. Come spiega mirabilmente il neurologo Antonio Damasio: «La spiritualità è uno stato particolare dell’organismo, una delicata combinazione di determinate configurazioni corporee e mentali. Collegando le esperienze spirituali alla neurobiologia dei sentimenti (...) il mio scopo è suggerire che la natura sublime della spiritualità sia inclusa in quella altrettanto sublime della biologia.» In varie culture dell’Africa non è che “si crede” agli spiriti: gli spiriti si incontrano direttamente, com’era per i Greci nei confronti degli dèi; non ci sono testi sacri a cui rifarsi o su cui confrontarsi, ma saranno le religioni importate, soprattutto Cristianesimo ed Islam, a doversi confrontare con i culti ancestrali, che a volte coinvolgeranno nei riti di guarigione anche i santi delle rispettive fedi. Nella cosmogonia vudù c’è Mawu, il dio creatore, che addirittura si ritira infastidito da tanta violenza e bassezza che vede espressa dagli uomini, così lascia i vudù, come suoi emissari: ci pensassero loro a raccogliere le preghiere e le devozioni di un’umanità malata e ormai troppo perversa! Siano loro a controllare la correttezza dei modi e dei tempi dei sacrifici. Egli concede anche la divinazione, quale sentiero da percorrere per vedere gli atti umani ancora chiusi nell’invisibile, nel guscio del tempo che deve realizzarsi o che si sta realizzando adesso.

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Tutto questo universo, nelle società ancora non completamente secolarizzate, accetta di far danzare insieme i diversi approcci alla vita, alla conoscenza, al mistero, alla salute... (per restare nel tema della cornice iniziale). L’ospedale africano (che non è un’azienda) sarà volentieri un prolungamento del villaggio, dove ci si ferma per giorni ad attendere la guarigione del proprio caro (che non è un cliente); sarà uno spazio per incontrare altre persone, con cui condividere la speranza che la terapia funzioni, tra lo sguardo di un antenato e l’effetto dell’antibiotico.
Poi c’è il corpo, che deve e vuole pregare, e insieme alla danza esprimere la grazia (che non è sinonimo di smielata trascendenza dei gesti! La grazia può essere anche violenta, come la bellezza...) e pretendere che arrivi la guarigione; se poi questa dovesse tardare, si continueranno ad intrecciare danze, canti e preghiere. Perciò la bellezza partecipa alla terapia e la bellezza è una sostanza ed essenza dell’Universo, ricorda Hölderlin, non un ornamento esteriore.

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Nell’arcipelago della malattia, il paziente ha la facoltà involontaria di emanare grazia dal suo sguardo e, nello stesso tempo, cercare di attrarla su di sé, chiedendo a qualche forza esterna di non restare inoperosa troppo a lungo. Mettere a fuoco questo doppio movimento, considerando che «l’obiettività dell’obiettivo fotografico non esiste», significa comunque intraprendere quell’attività predatoria che ogni fotografo ben conosce (fotografare una persona equivale a violarla – mette in chiaro la Sontag – a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto... la macchina fotografica è una sublimazione della pistola). Dunque fotografare non è mai un atto innocente e il rapporto con la camera è un insieme di gesti che sembra privilegiare l’atto magico rispetto a quello tecnico: «Forse non si è mai osservato che i primi grandi ritratti fotografici sono contemporanei delle prime sedute spiritiche» è l’inquietante osservazione della Yourcenar.

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Negli ospedali si realizza una drammaturgia della cura costruita su atti e personaggi che a malapena si lascia fotografare e fissare, e dove troviamo anche la maternità, il magico fenomeno della nascita e dell’assistenza al neonato che, per maggior protezione del suo rappresentare ancora un’inesauribile fonte di meraviglia, trova posto nello scenario ospedaliero dell’ostetricia. E in Africa, nei reparti di maternità, sembra si debba esprimere un tasso maggiore di grazia, come un mantello necessariamente più ampio per proteggere il figlio esposto a quella natura africana tanto sontuosa, bella e potente, quanto facile a ritirare la sua benevolenza e a mostrare il volto irato della sua compassione.

Anche l'antropologo Marco Aime interviene con un giudizio sulle foto e sul libro e scrive: Le immagini di Massimiliano Troiani ci portano lungo un sentiero a zigzag, che attraversa i diversi modi di curare la malattia presso alcune società africane. A zigzag, perché in Africa la medicina tradizionale dialoga con quella occidentale e quella cinese, di più recente importazione, spesso senza troppe barriere, dando vita a metodi sincretistici in cui religione e chimica possono stare accanto.

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Ogni società ha sviluppato una particolare concezione del corpo, ma qualunque sia la percezione, il nostro corpo finisce inevitabilmente per declinare ed essere soggetto a malanni. Tutti ci ammaliamo, tutti cerchiamo in qualche modo di curarci, ma proprio perché l’idea che ogni società ha del corpo è una costruzione culturale e pertanto non è assoluta, anche il concetto di male, di sofferenza e di conseguenza di terapia possono solo essere compresi all’interno di un determinato quadro culturale.

Per lungo tempo gli antropologi si sono confrontati con sistemi di cura indigeni, analizzandoli però alla luce del paradigma biomedico, che caratterizza la medicina occidentale. La biomedicina ha a lungo rappresentato la lente attraverso cui gli antropologi guardavano alle medicine altre. È solo a partire dagli anni Settanta, in una fase in cui l’intera antropologia inizia a ripensare se stessa e il suo rapporto con l’altro, che gli antropologi elaborano un punto di vista autonomo dalla medicina ufficiale, mettendo a frutto le esperienze di studio e di contatto con sistemi diversi non solo di cura, ma di concezione del male.

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Esistono però diversi approcci al male, secondo i quali il corpo non viene considerato come un soggetto separato dalla mente e neppure dal contesto sociale in cui vive. Molti sistemi di cura tradizionali, adottati da differenti popolazioni dell’Africa, hanno un carattere olistico e, seppure con diverse accezioni, la loro concezione del corpo risponde a quella di mindful body, cioè un corpo cosciente, consapevole che si relaziona al mondo sociale.
La malattia, intesa in questo senso, cessa di essere una pura disfunzione fisica, ma diventa il prodotto di una serie di relazioni tra corpo, mente e condizioni sociali. Non dimentichiamo che molte malattie sono causate da malnutrizione, sottonutrizione, carenza di igiene, ambienti malsani, tutti fattori che si traducono in una parola: povertà.

Compito del guaritore diventa allora il comprendere l’insieme delle cause che provocano quel disordine che porta il male. Ciò che distingue alcuni sistemi terapeutici tradizionali è che, a differenza della medicina occidentale, il guaritore non riconduce i sintomi del paziente a una griglia predefinita, ma ogni volta interpreta quei sintomi a seconda del soggetto che si trova di fronte, della sua esistenza, delle sue relazioni. Se in un caso febbre e debolezza possono essere con pochi dubbi sempre letti da un nostro medico come sintomi di influenza (una malattia predefinita), nell’altro possono rappresentare malesseri diversi in diversi individui.

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Anche le cause possono essere individuate in ambiti diversi, magari connettendo il male con entità soprannaturali o attribuendole alle cattive intenzioni di qualcuno; in ogni caso si tratta di elementi che rimandano alla società ed è con questo che il guaritore deve fare i conti, perché deve ristabilire l’ordine che esisteva prima del male. Male che talvolta assume il volto divino. Gli akan del Ghana dicono che il male, la morte, forse erano sempre esistiti, ma prima che dio abbandonasse gli uomini «non avevano ancora aperto gli occhi». Ecco la spiegazione di quanto sostiene l’etnopsichiatra Tobie Nathan, che la medicina più diffusa nel mondo è la preghiera, dopo viene l’aspirina.

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