Una esperienza di teatro terapeutico
Associazione TheAlbero Italia
Il teatro di comunità
Ilaria Olimpico intervista Hector Aristizabal
Hector Aristizabal è uno psicoterapeuta e artista di teatro di fama internazionale, fondatore e direttore artistico di Imaginaction.org, un’associazione con base a Los Angeles e con progetti in tutto il mondo. ImaginAction utilizza il potere trasformativo dell’arte per favorire la ricomposizione delle relazioni sociali, per sostenere processi di riconciliazione di comunità e per essere capaci, a livello individuale e collettivo, di pensare il cambiamento.
L’arte e il teatro sociale, dunque, non solo per rinnovare gli immaginari, ma anche per riconoscere e sperimentare modi diversi di vivere.
Dal 2010, Hector Aristizabal e la co-facilitatrice Alessia Cartoni hanno aperto i loro laboratori di teatro sociale a tirocinanti di tutto il mondo. I/le tirocinanti hanno l’opportunità di partecipare a vari progetti di comunità, sperimentando diverse metodologie, come il Teatro dell’Oppresso, il Playback theatre, il Theatre of Witness, il Council Circle e i rituali. I/le tirocinanti condividono l’abitazione, riflettono sul lavoro svolto e sulle dinamiche di gruppo, beneficiano di un mentoring inidividuale.
Hector sarà a novembre in Italia, invitato dal collettivo artistico TheAlbero, per il nuovo programma di tirocinio “Mentor-ship” in Abruzzo. In questa interivsta Hector spiega come è nata e come si sviluppa l’idea della formazione-tirocinio, come un contesto internazionale di lavoro rende più umili, qual è la differenza tra un/a mentor e un/a formatore/formatrice*, quali connessioni ci sono tra ferite e doni personali e infine parla della sua prossima iniziativa in Palestina.
- Hector Aristizabal, come è nata l’idea di una formazione-tirocinio?
Per molti anni ho lavorato come artista teatrale e psicoterapeuta a Los Angeles e ho portato entrambi i flussi di esperienze e conoscenze nel mio lavoro con le popolazioni emarginate e le comunità in crisi. Ho invitato molti miei pazienti a diventare attori e attrici e creare degli spettacoli con me. Alcuni di loro erano membri di gang, altri erano cosiddetti “ragazzi difficili”, altri ancora erano malati di Aids, altri erano sopravvissuti alla tortura. Ho sempre invitato a partecipare anche i professionisti che lavorano con questi gruppi: terapeuti, lavoratori e lavoratrici sociali e insegnanti. Pensavo fosse importante per loro vedere i loro pazienti/clienti in una nuova prospettiva, come esseri umani completi, e che fosse un’occasione per integrare le arti nel loro lavoro.
Mi sono ritrovato sempre più coinvolto nell’attività di formazione e mentoring. Nel 2000, ho fondato ImaginAction. Ho iniziato a ricevere inviti da tutto il mondo, ed era meraviglioso, ma nonostante riuscissi a formare alcune persone locali, era praticamente impossibile offrire la formazione continua esperienziale e profonda che era parte della mia pratica a Los Angeles. Quando la Playhouse mi ha offerto un mese di residenza a Derry, in Irlanda del Nord, ho capito che era l’opportunità di creare un programma di tirocinio portando studenti e studentesse da tutto il mondo per un’esperienza intensiva, non solo di lavoro con le comunità, ma di vita comune, di esplorazione delle nostre attitudini nel lavoro e dei momenti in cui sperimentiamo dei disagi o dei blocchi.
- I tirocini si sono svolti in diversi paesi e con tirocinanti di origine diversa. Quali sono le difficoltà di stare insieme nella differenza e in che modo il contesto internazionale si rivela una ricchezza per il programma?
I/Le tirocinanti hanno a che fare con diverse comunità e diverse questioni. In Irlanda del Nord, per esempio, abbiamo lavorato con i prigionieri, con i repubblicani (Ira) e i Lealisti (Uvf and Udf), nei programmi di prevenzione del suicidio, nei programmi per le giovani generazioni; in Colombia, abbiamo lavorato sulle dinamiche fra diversi gruppi: gli Afro-Colombiani sfollati a Palomino, le Ong che lavorano con i gruppi delle vittime. I/Le tirocinanti sono venuti da tutto il mondo: Paesi Bassi, Norvegia, Italia, Belgio, Israele, Regno Unito, Australia, Venezuela, Colombia, El Salvador e Stati Uniti.
La differenza nelle lingue e nel background è certo una difficoltà ma anche un vantaggio. Chiedo sempre ai/alle tirocinanti di incontrare le comunità locali senza aspettative. Quando lavori nella tua città o nel tuo paese, può esserci la tendenza di credere che sai tutto sulla comunità con la quali lavori; in realtà, puoi essere all’oscuro della cultura sociale di un gruppo marginalizzato e puoi trascurare le caratteristiche individuali dei membri di quel gruppo. In un contesto straniero, siamo meno inclini a pensare di conoscere tutto. Siamo coscienti della nostra ignoranza e quindi è più facile restare umili e vedere realmente le persone nei laboratori in modo autentico. Idealmente, questo modo di vedere e interagire dovremmo conservarlo quando torniamo a lavorare in contesti a noi più familiari.
Sono anche cosciente del privilegio che abbiamo di viaggiare in giro per il mondo e conoscere gente stupefacente ovunque. Allora come possiamo raccogliere e metabolizzare quanto abbiamo imparato e riportarlo agli altri? Una modalità è che diventiamo più sofisticati nell’utilizzo della metodologia e delle tecniche, aggiungiamo nuove cose, condividiamo con altri/e praticanti, moltiplichiamo il lavoro. Lavorando in posti come Irlanda del Nord, che sono luoghi post-conflitto, spero possiamo imparare quanto più possibile così da portarlo in Palestina, e così quando andiamo in Colombia portiamo quello che abbiamo imparato in Palestina e così via. Anche i/le tirocinanti hanno questa opportunità di portare nel mondo questo sapere.
- Durante il tirocinio, ci sono delle sessioni di rielaborazione. Cosa significa?
Dalla nostra prima residenza, abbiamo tenuto delle sessioni di rielaborazione dopo i nostri laboratori, riflettendo giornalmente sulle metodologie ma soprattutto sulle dinamiche del nostro gruppo e su come le nostre domande irrisolte incidono su quello che facciamo quando lavoriamo nelle comunità. Ho capito quanto valore aveva per me riflettere quando le persone chiedono perché facciamo quello che facciamo. Ho capito che la mia esperienza di molti anni come psicoterapeuta e la mia conoscenza delle dinamiche di gruppo hanno giocato un ruolo fondamentale nel guidarmi in intuizioni e comprensioni che non sono comuni in un contesto educativo. Nella rielaborazione della giornata, osserviamo le tendenze, guardiamo alle cose che tendiamo a tralasciare perchè risvegliano le nostre paure. In questo lavoro capita che ci ri-connettiamo alle nostre paure, ai nostri blocchi, ai nostri pregiudizi, i nostri “poliziotti nella testa”, alle nostre narrazioni che non ci servono più.
- Quale la differenza tra un/una mentor e una formatrice/un formatore o un insegnante?
Augusto Boal è stato un mentor per me, ma non credo che mi avrebbe riconosciuto fuori da Los Angeles. Riconosco anche come mio mentor il mitologo Michael Meade, anche se lo incontro una volta ogni paio di anni.
I Greci spiegano che questa connessione esiste quando il daimon in una persona vede e riconosce il daimon in un’altra persona. Quando c’è questo riconoscimento reciproco, il mentor diventa parte della psiche, qualcuno a cui pensi quando hai un problema o qualcuno che ti viene in aiuto quando occorre, non per forza attraverso una telefonata o un’email, ma nella tua mente. Possiamo essere mentor per i/le partecipanti dei laboratori con la comunità anche se restiamo per poco. Puoi riconoscere un dono in una persona giovane che ha speso la sua vita essendo incompreso e stigmatizzato, ma quando lo vedi veramente gli fai il dono di vedere se stesso in una nuova luce, e questa forza che viene dal reciproco riconoscimento può durare una vita intera.
La relazione tra mentor e mentees è un processo biunivoco, stanno sempre apprendendo l’uno dall’altro. Quello che mi interessa del mentoring è l’esperienza di lavorare con altre persone che condividono la mia vocazione ma hanno modi unici di esprimere i loro doni. Imparare significa trasformare. Il vero imparare non è un processo in cui si vomitano informazioni. Se non ti trasformi non stai imparando. Imparare è un atto di amore, non c’è altro modo per imparare. Il mentore non è qualcuno che dà buoni voti e ti fa sentire a tuo agio oppure ti dà cattivi voti e non dice nulla. Il mentore è connesso alla parte di te che vuole imparare. Questo è terribilmente andato perso nelle università dove un insegnante ha quaranta studenti o fa lezione attraverso video conferenza. L’informazione può essere scambiata ma può solo portare altra informazione, non porta necessariamente alla formazione. E non puoi formare una persona senza conoscerla.
Durante il tirocinio ho la possibilità di vedere i/le tirocinanti che facilitano i laboratori e di osservarne l’energia e le interazioni. Poiché viviamo insieme, posso anche conoscerli sotto altri punti di vista. Così posso essere capace di offrire una guida e di porre domande personali su cui riflettere. Insieme esploriamo le cose che non ci permettono di imparare e le cose che vogliamo imparare.
- Il tirocinio è un’esperienza totale perché non solo lavorate insieme ma vivete insieme. Come continua il mentoring nella vita giornaliera insieme?
Vivere insieme in modo comunitario, mentre lavoriamo, diventa un grande laboratorio di vita. E’ interessante che molto del lavoro che facciamo con le comunità riguarda ritessere i fili che sono stati rotti dalla violenza, dalle dipendenze, o altri problemi, ma allo stesso tempo, molti di noi non vivono in comunità. Viviamo nei nostri appartamenti, andiamo a lavoro e torniamo a casa. Il tirocinio residenziale ci ricorda in cosa consiste una comunità, cosa significa prendere in considerazione i bisogni dell’altro. La differenza con altri contesti è che qui se c’è un problema lo affrontiamo. Non lo nascondiamo, non aspettiamo che il tirocinio finisca. Affrontiamo il problema e facciamo i necessari cambiamenti. Durante la residenza del tirocinio, capiamo che abbiamo tutti/e bisogno di una guarigione e che tutti/e portiamo una medicina. Il modo in cui mi approccio al mio lavoro è di incorporare “la guarigione” nel Teatro dell’Oppresso e nella giustizia sociale, perché credo che senza guarigione non è possibile la giustizia sociale o la vera trasformazione. Ovviamente non impongo la trasformazione, se la persona è pronta, accade. Lo stesso accade lavorando con le comunità, non invitiamo a venire per una guarigione ma spesso la guarigione è un significativo sottoprodotto del processo.
- Cosa imparano i/le tirocinanti?
Io ho il ruolo di guidare il processo, per quanto è possibile, ma la mia intenzione è che tutti e tutte facciano un salto nel processo per arricchirlo con i loro doni, le loro conoscenze. Non insegno un modello, o una serie di tecniche, o come fare. Ovviamente il/la tirocinante avra’ l’esperienza per portare tecniche e metodi in diverse comunità di persone senza esperienza teatrale; vivrà la filosofia delle arti come liberazione e più specificamente il Teatro dell’Oppresso.
A volte penso che la lezione più preziosa che i/le tirocinanti apprendono è la conoscenza di chi sono come praticanti. Christine Baniewicz, una delle prime tirocinanti, ha detto qualcosa di molto interessante: “Essere in questo tirocinio non riguarda imparare come Hector fa cosa fa e nemmeno imparare a essere come Hector. E’ piuttosto iniziare a imparare come essere se stesse e abbracciare i propri doni, i propri stili e le proprie sfide”.
- Spesso parli dei doni e racconti una storia sul dono che ogni bambino e ogni bambina hanno. La tua autobiografia si intitola “La benedizione accanto alla ferita”, ci spieghi come i doni e le ferite sono connesse? Cosa significa questo nel contesto di una comunita’?
Quando ripeto che ogni persona porta con sé dei doni o una medicina e che le benedizioni sono accanto alle ferite, sto facendo semplicemente eco a qualcosa che ho imparato dalla vita e dalle società tradizionali. Ogni bambino porta i doni di cui la comunità ha bisogno. Quando i doni non sono rispettati, onorati ci portano in situazioni problematiche. Diventiamo pericolosi nel mondo. Il compito della comunità è di vedere, benedire e riconoscere questi doni, di nutrirli e dar loro opportunità di essere offerti.
Nella relazione di mentoring, noi come gruppo, creiamo le condizioni per vederci l’un l’altro, per riconoscere le nostre ferite e i nostri doni e di avere cosi’ l’opportunità di benedire e guarire insieme. In termini moderni, significa lavorare insieme con un' alta consapevolezza di se stessi e dell’altro. In un contesto sicuro e di sostegno reciproco, affrontiamo le paure e identifichiamo i meccanismi automatici delle persone. Idealmente, il/la tirocinante diventa più consapevole che questo lavoro porta a innescare tutto ciò con cui dobbiamo fare i conti in noi stessi. Un tirocinante una volta ha detto: “Sono stato vittima di bullismo da piccolo e quando i ragazzi diventano rudi perdo le staffe“. L’invito è quindi di riconoscere che quando lavoriamo con i gruppi, le nostre ferite possono riaprirsi ed è importante sapere che anche noi stessi ci stiamo curando. Il nostro lavoro non ha formule salvifiche, possiamo solo invitare alla trasformazione, trasformandoci noi stessi, partecipare alla guarigione guarendo le nostre stesse ferite.
Il teatro è raccontare e ascoltare storie, implica l’uso simbolico del linguaggio (storie, miti, danze, musica, oggetti rituali, etc) per ridare significato a ciò che siamo, per ricordare chi siamo e in che relazione siamo con gli altri e con la terra.
- Nella formazione-tirocinio mentorship in novembre cosa sarà diverso?
Ogni esperienza è assolutamente unica. Dipende dall’alchimia delle persone coinvolte e con quello che creiamo insieme con i nostri desideri. Sono entusiasta di essere parte di questo desiderio di cercare di recuperare questo antico metodo di insegnamento. Mi interessa collaborare con TheAlbero per ritrovare modalità più orizzontali per apprendere insieme. Stiamo anche integrando altri meravigliosi percorsi di trasformazione come il Dragon Dreaming e qualsiasi cosa i/le tirocinanti vogliano esplorare.
- La tua prossima iniziativa è in Palestina, sei stato invitato dal Comitato di Lotta Popolare di Bil’in. Cosa farai là?
Sì, avrò il privilegio di lavorare con un gruppo di teatranti internazionali e palestinesi e con tutta la comunità di Bil’in. Mi hanno chiesto nello specifico di preparare uno spettacolo di teatro forum da portare poi in giro nei villaggi vicini. Con il noto muralista Francisco Letelier creeremo un murales che racconterà “la storia della comunità” contro l’occupazione israeliana. Infine costruiremo dei burattini giganti da usare nella manifestazione nonviolenta organizzata dal villaggio per la rimozione del muro.
“TheAlbero” in collaborazione con “Assopace Palestina Roma” sta organizzando una serata per raccontare la nostra esperienza a Bil’in , in quell’occasione porterò i video e le foto e coinvolgerò il pubblico in un dialogo teatrale.
- Juliano Mer Khamis, cofondatore del Freedom Theatre di Jenin, ripeteva spesso che la prossima intifada sarebbe stata un’intifada culturale. Cosa pensi del ruolo dell’arte come strumento di resistenza e giustizia sociale?
Juliano è stato per molti di noi una figura di ispirazione e come artista era anche un visionario. Anche io condivido il suo desiderio utopico che la terza intifada sarò un’intifada culturale guidata dallo spirito dell’arte, con il compito di trasformare l’esistente e creare qualcosa di completamente nuovo. Il mio desiderio quando viaggio in Palestina, Iralnda del Nord, Colombia e altri posti è di riconnettere le persone con il ruolo delle arti come luoghi in cui l’umanità guarisce.
Se la terapia è il luogo dove l’individuo prova a guarire, l’arte è quello che guarisce la comunità.
Ilaria Olimpico ha fondato con Uri Noy Meir
il collettivo artistico “TheAlbero”
thealbero7@gmail.com