l'VIII Conferenza Nazionale promossa da "Amici della Terra"
21 - 22 novembre - Palazzo Rospigliosi - Roma
Efficienza energetica
Le Frontiere Finanziarie del Clima Globale
Di Giovannangelo Montecchi Palazzi
Alla luce degli esiti della CoP 21 di Parigi, il tema della seconda sessione della VIII Conferenza Nazionale sull’efficienza energetica promossa da Amici della Terra - “Efficacia degli investimenti per la decarbonizzazione, equo accesso all’energia, cooperazione internazionale”- è quanto mai attuale.
Dove concentrare le risorse per ottenere risultati significativi in termini di riduzione di emissioni nocive e di sviluppo sostenibile?
A rischio di ripetere cose risapute, va ricordato che, mentre le emissioni di gas a effetto serra prodotte dei Paesi sviluppati sono nel loro insieme stazionarie o in lieve contrazione, quelle dei Paesi emergenti, che ormai rappresentano il 60% del totale mondiale, sono in continuo aumento per gli effetti combinati dell’incremento della popolazione, dello sviluppo economico e della scarsa efficienza energetica.
Secondo la Banca Mondiale e il DAC, Development Assistance Committee dell’OCSE, i PVS, Paesi in vari stadi di sviluppo, sono 150 (su 194 Stati membri ONU e 190 presenti alla CoP 21) ed ospitano l’80% della popolazione mondiale.
Inoltre, gli ulteriori 2,5 miliardi di esseri umani previsti dalle proiezioni demografiche nei prossimi decenni proverranno quasi esclusivamente dai PVS. E’ anche opportuno ricordare che circa 1,2 miliardi di persone sono privi di elettricità e circa 2,5 miliardi sono “sotto-elettrificati”. Insieme, le due categorie rappresentano quasi la metà degli abitanti del nostro pianeta.
Ovviamente, non è ipotizzabile intervenire sulla demografia così come, per evidenti ragioni di giustizia distributiva, non è neppure pensabile privare la maggior parte degli abitanti del pianeta di un equo accesso all’energia. Basti solo ricordare che i consumi pro capite di energia dei meno avanzati tra i PVS sono l’undicesima parte di quelli degli USA e la sesta di quelli della UE. A ciò si aggiunga il fenomeno del “carbon leakage”, cioè le conseguenze del trasferimento di produzioni dai Paesi sviluppati ai “paradisi ambientali”, intesi in senso ironico non come paradisi dell’ambiente, ma come paradisi per gli inquinatori in assenza o per scarsa incisività di norme e controlli. Si tratta di un fenomeno difficile da quantificare, ma sicuramente di tutto rilievo.
Secondo uno studio del Prof. Michael Grubb del London University College, la CO2 incorporata nei beni importati dai primi cinque paesi della UE corrisponderebbe a circa il 20% di quella consumata e compenserebbe la riduzione della CO2 prodotta dai medesimi Paesi.
Altre stime riportano percentuali di “carbon leakage” del 40% per l’Europa e del 13% per gli USA, mentre la Cina, il Paese primo produttore di CO2 e primo imputato come grande inquinatore, vedrebbe la sua “carbon footprint” ridotta del 25%.
Occorrerà, dunque, concentrare gli sforzi sull’intensità energetica dei PVS tenendo ben presente che l’efficienza nell’uso dell’energia rappresenta un valore non solo ai fini della decarbonizzazione globale, ma fornisce anche un contributo significativo al miglioramento di vari altri aspetti ambientali e al progresso socio-economico dei singoli Paesi.
Al riguardo, si presenta un panorama di luci e di ombre.
Luce sono indubbiamente gli impegni presi in sede CoP21 a Parigi perché, includendo per la prima volta i Paesi emergenti, costituiscono un progresso determinante rispetto al Protocollo di Kyoto, negoziato 20 anni fa, che esonerava i PVS da qualsiasi obbligo di riduzione. Alla luce della situazione attuale, qualsiasi sforzo di decarbonizzazione che non coinvolgesse tutta la comunità internazionale sarebbe inane.
Gli impegni presi a Parigi sono stati, non senza fondamento, criticati perché si tratta di impegni unilaterali, perché presentano problemi di trasparenza, cioè di misurazione e controllo delle emissioni da parte di entità indipendenti, e perché non prevedono sanzioni per le eventuali inadempienze. Resta comunque il fatto che l’inclusione dei PVS è stato un passo essenziale.
Il non facile compito della CoP 22 di Marrakesh e delle successive sarà dare attuazione concreta agli impegni presi in sede di CoP 21 perché, per molti Paesi, ciò rappresenterà un’autentica sfida, sia tecnica che economica. Verosimilmente assai più economica che tecnica.
Tecnologie e strumenti tecnici efficaci esistono già. Al riguardo basti citare alcuni esempi. E’ di pochi giorni or sono il comunicato di Federchimica secondo il quale dal 1989 ad oggi le aziende ad essa aderenti hanno ridotto del 92% le emissioni di CO2 e di percentuali anche superiori quelle di altri agenti inquinanti. Secondo l’EPSA, l’associazione europea dei produttori di centrali termoelettriche, applicando le BATs, Best Available Technologies, alle circa 2.000 centrali a carbone in funzione nei PVS si eliminerebbero circa 1,5 miliardi di tonnellate di CO2, pari a quasi il 5% delle emissioni globali, a metà delle emissioni della UE e quasi il doppio delle riduzioni ottenute a livello globale con le rinnovabili, idro esclusa.
I progressi della chimica, che hanno messo a punto gas sostitutivi degli HFC (Idro-Fluoro-Carburi) a costi modesti nella funzione di gas refrigeranti, hanno permesso di giungere al recente Accordo di Kigali che entro fine secolo dovrebbe ridurre il riscaldamento globale di 0,5°. Ed è altamente probabile che ulteriori contributi verranno forniti da nuove tecnologie oggi allo stadio sperimentale o ancora troppo onerose, come la CCS, Carbon Capture and Sequestration, oppure ancora in fase di ricerca.
L’Italia, che ha un’intensità energetica del 18% inferiore alla media UE, un’industria di avanguardia quanto a efficienza energetica e validi centri di ricerca pubblici e privati, potrà sicuramente dare un contributo importante.
Meno rassicuranti appaiono, invece, le prospettive finanziarie.
Nello scorso mese di settembre sono state rese note le stime di tre fonti autorevoli. All’Assemblea annuale della Banca Mondiale e del FMI il Presidente della Banca, Jim Yong Kim, ha dichiarato che nei prossimi 15 anni gli impegni assunti in sede di COP 21 comporteranno investimenti per $ 90 mila miliardi, pari al 130% del PIL mondiale e a circa 50 volte il PIL italiano. Dal canto suo l’IEA, International Energy Agency, ha calcolato in 45 mila miliardi di Euro le necessità finanziarie di qui al 2050. Infine il Green Finance Study Group del G20, istituito durante la Presidenza cinese del Gruppo e co-presieduto dalle banche centrali inglese e cinese, nello studio pubblicato il 5 settembre menziona varie decine di migliaia di miliardi di dollari.
In confronto, i 100 miliardi di dollari l’anno promessi a Parigi dai Paesi sviluppati in favore di quelli emergenti appaiono inferiori di un ordine di grandezza. Oltretutto, raggiungere tale cifra si sta rivelando non semplice. L’UNCTAD ha espresso il timore che vengano sottratti fondi ai flussi di APS, Aiuti Pubblici allo Sviluppo, pari a circa 135 miliardi di dollari l’anno. Altri, come l’OCSE, propongono di includervi i crediti all’esportazione che fruiscono, sì, di garanzie statali ma vengono concessi a condizioni commerciali che possono essere sopportate solo dai più avanzati tra i PVS, i “middle income countries” secondo la definizione dell’OCSE-DAC, non dai più poveri.
Si prospetta, dunque, un problema finanziario di proporzioni inusitate. Mark Carney, il canadese Governatore delle Bank of England e Presidente del Financial Stability Board,in una recente conferenza ha indicato nel cambiamento climatico “a defining issue for financial stability”, cioè un rischio sistemico, ponendo peraltro più l’accento sui possibili effetti negativi del riscaldamento globale che sui problemi del finanziamento delle misure atte a contenerlo. Quanto a quest’ultimo aspetto, le proposte su come affrontarlo sono ancora incerte e sicuramente daranno adito a non pochi dibattiti. Il Green Finance Study Group del G20 ha esaminato tutta una serie di fonti possibili evidenziando, tra l’altro, che i fondi amministrati dagli investitori istituzionali – fondi pensione, compagnie di assicurazione, fondi sovrani, fondi mutui, private equity ecc. – sono stimati in 100.mila miliardi di dollari.
Dallo studio del G20, dalla conferenza del Governatore Carney e da quella tenuta il 14 ottobre scorso alla LUISS dal Prof. Gael Giraud, Capo Economista della AFD, Agence Française de Développement, sembra delinearsi il quadro che, di seguito, si riassume molto sommariamente.
L’economia mondiale è caratterizzata da una crescita insufficiente e da rischi di deflazione nonostante la forte liquidità che non trova impiego in investimenti remunerativi stante i tassi di interesse bassissimi quando non negativi. In tale contesto, si propone che i Paesi del G20 – che producono l’85% delle emissioni globali - sviluppino una nuova categoria di strumenti finanziari internazionali (“cross border”) per affrontare il cambiamento climatico e, contemporaneamente, dare nuovo impulso all’attività economica.
Non è facile prevedere come tali proposte troveranno attuazione concreta, mediante quali strumenti e come verranno accolte dalle banche centrali e dagli ambienti finanziari più conservatori come, ad esempio, quelli tedeschi. Verosimilmente si tratterà di “green bonds” dei quali già si possono osservare interessanti manifestazioni. Ad esempio, sempre nel settembre scorso si è aperto in Lussemburgo un “green exchange” che tratta 114 emissioni di tali bonds per un valore di circa 42 miliardi di dollari.
Ne’, in un’ottica di lungo periodo, vanno dimenticate le dichiarazioni di intenti di alcune delle maggiori banche così come importanti manifestazioni di sensibilizzazione del mondo imprenditoriale nei confronti dei problemi ambientali in generale e della decarbonizzazione in particolare. Basti ricordare i PRI, Principles for Responsible Investment, promossi nel 2006 dall’UNEP che, ad oggi, sono stati sottoscritti da 1.400 firmatari che gestiscono circa 59 mila miliardi di dollari. Dei 1.400 sottoscrittori, 120 che gestiscono circa 10 mila miliardi di dollari hanno anche sottoscritto il “Montreal Pledge” che li impegna a rendicontare le loro emissioni di CO2 e, per quanto possibile, a ridurle.
Da ultimo si può ricordare anche la recentissima “Oil & Gas Initiative” ai sensi della quale dieci delle maggiori compagnie petrolifere, tra cui l’ENI, si sono impegnate a investire nei prossimi dieci anni un miliardo di dollari da destinare alla CCS – Carbon Capture & Sequestration e al controllo delle perdite di gas metano.
Un miliardo in dieci anni suddiviso tra dieci equivale ad un impegno di 10 milioni di dollari l’anno. Trattandosi di primarie compagnie petrolifere, è un impegno più che altro di immagine, specie avendo a mente i costi finora proibitivi dello sviluppo della CCS. Tuttavia, ricordando che l’effetto serra del metano è molto più pronunciato di quello della CO2, è importante notare che dette compagnie hanno così implicitamente ammesso l’importanza ai fini del riscaldamento globale dei gas dispersi (“wented”) in fase di estrazione e trasporto degli idrocarburi o bruciati (“flared”) in sede di raffinazione. Un fenomeno rilevante sul quale, finora, planava un curioso silenzio.
Dunque, ricordando il tema di questa sessione, se vogliamo garantire un equo accesso all’energia, condizione “sine qua non” per la crescita economica e, quindi, lo sviluppo sostenibile della maggioranza dell’umanità e se vogliamo che ciò avvenga nel rispetto dell’ambiente e dei principi di equità, dovremo affrontare un colossale problema di cooperazione internazionale che si articola in due aspetti: efficacia degli investimenti e loro finanziamento.
L’Italia è assai ben posizionata per dare un contributo importante. E’ stata sempre “risparmiosa” in fatto di energia, la sua intensità energetica è del 18% inferiore alla media europea. La sua agenzia pubblica per l’assicurazione dei crediti all’esportazione, la SACE, è tra le più quotate anche se è handicappata del basso “rating” del nostro Paese. Per la nostra industria potrebbero aprirsi prospettive molto interessanti.
Oserei anche dire che il tema di questa sessione sarà il problema nodale dei prossimi decenni, il campo di battaglia sul quale si vincerà o si perderà la sfida della decarbonizzazione.
Nell’ottica futura anzi delineata le politiche della UE contro i cambiamenti climatici sono completamente fuori bersaglio.
La UE si è data traguardi di riduzione molto ambiziosi e tanto più lodevoli dal momento che i suoi 28 Stati membri producono solo il 9% delle emissioni globali. Ma li ha perseguiti esclusivamente mediante misure interne, prive di ogni proiezione internazionale, ignorando financo il CDM, Clean Development Mechanism, il meccanismo di collaborazione coi PVS previsto dal Protocollo di Kyoto. L’ambizione esplicita è stata quella di fungere da esempio - “to lead by exemple” - al resto del mondo. Un atteggiamento alquanto pretenzioso e autocompiaciuto dagli effetti limitati a livello globale. Inoltre le misure attuative per raggiungere gli obiettivi comuni sono state demandate ai suoi 28 Stati membri. Sotto il profilo normativo ne è letter del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nel 2014 i cinque maggiori Stati membri della UE spendevano € 48 miliardi in sussidi alle rinnovabili e € 315 milioni in ricerca sulle medesime: 153 volte meno. Un esempio di allocazione delle risorse quantomeno opinabile.
L’UE è il principale mercato di importazione al mondo. Grazie alla forza contrattuale che gliene deriva è riuscita ad imporre le sue norme di sicurezza e ambientali su una vastissima gamma di prodotti importati, dalle automobili ai giocattoli passando per i cibi ecologici. Nell’impossibilità di una tassazione internazionale uniforme della CO2, la UE, nell’interesse dell’ambiente globale oltre che della competitività della sua industria, dovrebbe introdurre l’imposta, interna ed esterna, sulle emissioni aggiuntive ripetutamente proposta dagli Amici della Terra. derivato una sorta di vestito di Arlecchino di 28 colori diversi con buona pace del mercato unico dell’energia.
Un ultimo aspetto riguarda la ricerca. Secondo quando riportato da Diplomazia Economica Europea, news