Acque e alluvioni - difesa del suolo e frane - clima ed energia
secondo le linee fondamentali tracciate dal Prof.Gianfranco Merli
Etica, Ecologia, Economia
Rinnovato impegno
Posizione ambientalista del Movimento Azzurro
di Chiriaco Rocco
Il Movimento Azzurro si è proposto sulla scena del mondo ambientalista ormai da un trentennio,
fondato dall’onorevole Gianfranco Merli, sincero democratico e cattolico impegnato in politica,
professore e studioso molto serio ed avveduto, proprio per porsi con un modo nuovo di fare
politica per la tutela ambientale praticare ambientalismo vero.
Essendo allora in noi ormai maturata l’idea che l’epoca dell’allarmismo, che pure del bene aveva
comportato contribuendo a svegliare sul caso le coscienze dei governanti e dei cittadini, fosse
ormai superata avendo compiuto la sua funzione, da ambientalisti di morale cristiana ci siamo
voluti porre sullo scenario dell’ambientalismo italiano, come movimento di proposta, un movimento
che non sfugge anche alla critica o alla polemica quando queste siano opportune per evidenziare
guasti, ma che non cerca la ribalta della cronaca esclusivamente per condannare.
Stiamo purtroppo assistendo a questo modo inconsulto di fare ambientalismo ormai da troppi
anni, le scene della ribalta sono aperte solo per poche organizzazioni che ormai si sono tramutate
in tutt’altro che associazioni di volontariato. Additare indiscriminatamente responsabili della cosa
pubblica e dire: “L’avevo detto” serve soltanto a placare le proprie coscienze per quei pochi giorni
successivi agli eventi tragici, ma poi di fatto non produce alcun risultato.
Le cifre riguardanti i fenomeni di dissesto idrogeologico nel nostro Paese, rappresentate nel
tempo dal Dipartimento della Protezione Civile, sono relative agli ultimi ottant’anni, ma sono state
presentate sul finire dell’attività del Dipartimento della Protezione Civile alla Camera; esse ci
parlano di oltre 5.400 alluvioni e 11 mila frane ed indicano il rischio idrogeologico secondo solo a
quello sismico tra i rischi naturali che affliggono il nostro Paese. In buona sostanza, dopo il
terremoto il rischio idrogeologico è quello che affligge di più il Paese e che fa pagare il prezzo più
alto in termini di vite umane.
Un altro dato è certo: negli ultimi venti anni i problemi del dissesto idrogeologico si sono
aggravati causando danni per oltre 30 mila miliardi e centinaia di vittime.
Le cause dell’aggravamento del rischio idrogeologico negli ultimi decenni, per lo più note,
sono state enunciate numerose volte da esperti e da rappresentanti del mondo ambientalista; la
realizzazione di insediamenti abitativi, ma non dispiace puntualizzare quali ne sono le cause: gli
insediamenti abitativi e produttivi in aree di pertinenza fluviale o esposte al rischio di alluvioni, di
frane o di erosione costiera, effetti questi aggravati in alcune regioni dal dilagare dell’abusivismo
edilizio o dalla inadeguatezza degli strumenti urbanistici.
La realizzazione di grandi infrastrutture, soprattutto viarie, che ostacolano il deflusso delle
acque aggravando la situazione in caso di alluvione. Il denudamento delle superfici boscose e
salde a causa dell’inarrestabile dilagare del fenomeno degli incendi boschivi quale concausa,
unitamente all’abbandono da parte dell’uomo dei territori rurali coltivati secondo i metodi
dell’agricoltura tradizionale, i quali mettono al sicuro le pendici dal rischio idrogeologico,
assicurando tutte quelle misure di registrazione delle acque “zenitali” che derivano dalla ordinaria
coltura dell’agro-forestale degli stessi, attraverso le misure che si adattano nei piani di
sistemazione idraulica e idraulico-agraria.
L’avanzata meccanizzazione e la conseguente industrializzazione dell’agricoltura hanno fatto
sì che superfici sempre più vaste si coltivassero in maniera intensiva tralasciando colpevolmente le
misure di salvaguardia territoriale.
La scarsa manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua, connessa ai fenomeni innanzi citati di
abbandono dei territori e di coltivazione, anche urbana, degli alvei dei fiumi, unitamente al mancato
controllo o monitoraggio dello stato di salute di questi territori, causa i disastri sotto gli occhi di tutti,
sempre annunciati ma mai previsti.
E non è un caso che il fenomeno del dissesto idrogeologico si sia aggravato negli ultimi venti
anni, tale è infatti il tempo sopravvenuto all’abbandono da parte dello Stato delle politiche per il
territorio e dell’azione di manutenzione dello stesso attraverso la diretta realizzazione di opere di
difesa idraulica. Durante gli anni 70 dello scorso secolo, lo Stato ha delegato parte dei propri
compiti alle Regioni, dapprima con il DPR 11972, poi con la grossa delega del DPR 616 nel 1977.
Com’è noto, in quelle occasioni le competenze in materia di territorio, di opere pubbliche, ma
anche di foreste, di acque interne e quindi di polizia forestale ed idraulica sono state trasferite alle
Regioni a statuto ordinario. Non che le Regioni non abbiano proseguito la realizzazione di opere,
anzi hanno proseguito l’apertura dei cantieri attraverso la spesa dei fondi ad esse trasferiti, anzi
ormai nella totalità dei casi anche le stesse Regioni hanno a loro volta trasferito agli Enti locali le
competenze in materia di esecuzione e di sistemazioni idraulico-forestali, quelli che più
comunemente chiamano forestazioni, conservando per sé la programmazione così come previsto
dalla Costituzione e dall’impianto regionale.
Ma contestualmente a questo trasferimento di competenze è venuta meno la politica nazionale e l’interesse verso la tutela del territorio in Italia, così come sono venute meno la politica forestale e la politica regionale in agricoltura. Il Paese non ha una politica nazionale in queste materie. Basti pensare che negli ultimi anni si è proceduto solo a cambiare le denominazioni dei Ministeri e delle competenze ad essi conferite. Il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, una volta Ministero di primaria importanza economica, è divenuto prima Ministero delle risorse agricole e forestali, materie queste devolute alle Regioni, poi altre modifiche ad ogni cambio di governo, fino ad arrivare all’attuale Ministero dell’Agricoltura e della “Sovranità alimentare”?? le Foreste sono scomparse dalla intestazione ministeriale e non si comprende se vi sia un raccordo sulla materia tra le attuali “competenze delle Regioni” e quelle dello Stato, che a questo punto non ne ha più, non ravvisandosi alcun riferimento al patrimonio forestale italiano in alcuno dei dipartimenti ministeriali.
Com’è noto, in quelle occasioni le competenze in materia di territorio, di opere pubbliche, ma
anche di foreste, di acque interne e quindi di polizia forestale ed idraulica sono state trasferite alle
Regioni a statuto ordinario. Non che le Regioni non abbiano proseguito la realizzazione di opere,
anzi hanno proseguito l’apertura dei cantieri attraverso la spesa dei fondi ad esse trasferiti, anzi
ormai nella totalità dei casi anche le stesse Regioni hanno a loro volta trasferito agli Enti locali le
competenze in materia di esecuzione e di sistemazioni idraulico-forestali, quelli che più
comunemente chiamano forestazioni, conservando per sé la programmazione così come previsto
dalla Costituzione e dall’impianto regionale.
Ma contestualmente a questo trasferimento di competenze è venuta meno la politica
nazionale e l’interesse verso la tutela del territorio in Italia, così come sono venute meno la politica
forestale e la politica regionale in agricoltura. Il Paese non ha una politica nazionale in queste
materie. Basti pensare che negli ultimi anni si è proceduto solo a cambiare le denominazioni dei
Ministeri e delle competenze ad essi conferite. Il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, una
volta Ministero di primaria importanza economica, è divenuto prima Ministero delle risorse agricole
e forestali, materie queste devolute alle Regioni, poi altre modifiche ad ogni cambio di governo,
fino ad arrivare all’attuale Ministero dell’Agricoltura e della “Sovranità alimentare”?? le Foreste
sono scomparse dalla intestazione ministeriale e non si comprende se vi sia un raccordo sulla
materia tra le attuali “competenze delle Regioni” e quelle dello Stato, che a questo punto non ne ha
più, non ravvisandosi alcun riferimento al patrimonio forestale italiano in alcuno dei dipartimenti
ministeriali.
Questa politica forestale risulta in perfetta continuità con quella del governo Renzi che nel 2016
riuscì a sopprimere il Corpo Forestale dello Stato, una benemerita Amministrazione Statale che ha
operato negli scorsi due secoli, per la tutela e salvaguardia del patrimonio forestale italiano e la
difesa del suolo attraverso la realizzazione di opere ingegneristiche tese alla conservazione, tutela
e miglioramento della rete idraulico-forestale del Paese.
Tale sciagurata opzione, ha costituito la spallata finale per il totale abbandono del presidio
istituzionale, nei secoli scorsi, posto a salvaguardia del territorio italiano attraverso le circa
milleduecento Stazioni Forestali, esistenti sul territorio italiano.
Mi spiegherò meglio perché non si possa dire: “siamo d’accordo sul federalismo spinto ed avanzato anche nella Protezione Civile, perché i Comuni non possono essere il terminale dei fax che partono dal Dipartimento della Protezione Civile ed attraversano le Regioni, le Prefetture e le Province, un modello di organizzazione in cui ognuno scarica la questione all’altro.
Ci vogliono livelli di responsabilità differiti e non basta che i Ministeri centrali preposti a queste materie esercitino un coordinamento, che per altro è contestato, come nel caso dell’agricoltura, dalle Regioni, ma è necessario che lo Stato, attraverso il Parlamento, si riappropri della politica di indirizzo nazionale in materia di difesa del suolo, così come in materia forestale. Questo discorso non deve sembrare anacronistico in relazione alle spinte federalistiche che ci sono state in italia e che le Istituzioni ricevono dalla politica oppure, se volete, che il Paese riceve da alcune Istituzioni regionali che in questo momento contano, soprattutto quelle del nord, e le riverberano sull’intero sistema politico.
L’ambiente e il territorio, che è parte costitutiva di esso, non hanno confini amministrativi, non
si possono proporre politiche ambientali per confini amministrativi; i bacini idrici, per esempio, non
sempre coincidono con i limiti territoriali di un ente locale e la legge 183 del 1989, pur
necessitando di un’ulteriore revisione, non trova oggi ancora definitiva applicazione. La radiografia
del nostro Paese fornisce un quadro assolutamente allarmante, sia per il numero di avversità
climatiche, che è stato ricordato, sia per la loro distribuzione sul territorio.
L’Italia risulta periodicamente colpita ed in misura crescente da alluvioni, inondazioni,
straripamenti, frane e smottamenti, da eventi cioè che dimostrano il degrado ambientale e non solo
del territorio medesimo, la sua fragilità ed insieme l’assenza di difese adeguate. Le indagini del
servizio geologico nazionale hanno evidenziato che sono a rischio idrogeologico ben 4 mila e 600
Comuni, circa il 65% del territorio nazionale. Un dato curioso mi è balzato agli occhi visionando gli
atti parlamentari di cui sono venuto in possesso attraverso la segreteria generale del Movimento
Azzurro per avere spunti e dati per questa relazione. Dei 4 mila e 600 Comuni individuati dalla
Commissione Ambiente e Territorio della Camera dei Deputati solo 3, pensate per esempio, sono i
Comuni della Basilicata a grande rischio; sembra strano per una regione che più volte è stata
additata come la regione dello sfasciume idrogeologico, “lo sfasciume pendulo”.
In Italia il numero dei Comuni che negli anni tra l’ultimo decennio del 1900 ed il primo degli anni
2000 la frequenza delle frane e delle alluvioni è stata sempre maggiore, sono stati ben 1.500 i
Comuni colpiti da alluvioni e più di 2.000 quelli che hanno subito danni, spesso molto ingenti, a
causa di frane e di smottamenti.
I risultati prodotti fino ad oggi dalla legge 183 sulla difesa del suolo non sono da considerarsi
soddisfacenti. La Commissione parlamentare Ambiente e Territorio, dove noi abbiamo anche
riferito il nostro parere nell’indagine conoscitiva sul dissesto del territorio italiano, dice che l’analisi
dello stato della pianificazione degli interventi, la disponibilità di risorse tecnico-scientifiche e di
adeguati finanziamenti evidenziano le difficoltà di conseguire gli obiettivi, a suo tempo previsti, di
prevenzione dai rischi alluvionali e di risanamento dal degrado di ampia parte del territorio
nazionale. In buona sostanza ci dice il Parlamento: “I mezzi ci sono ma c’è una grande difficoltà a
conseguire gli obiettivi”. A questa conclusione giunge la VIII Commissione Permanente della
Camera dei Deputati; noi abbiamo partecipato a questa indagine conoscitiva.
Inoltre, l’impianto istituzionale della 183 risulta ampiamente disatteso, soprattutto in alcune
zone del Paese e nessun piano di bacino, che è l’atto più significativo ed importante di
programmazione dell’azione e degli interventi, è stato finora formulato in maniera completa.
D’altronde il fatto che le norme vengono puntualmente tradotte in progetti ed atti efficaci dipende
anche dalla conoscenza dei parametri fisici del territorio e dei fenomeni idrologici. Ugualmente
dipende dalla tempestiva conoscenza degli stessi parametri la possibilità di evitare circostanze
atmosferiche eccezionali e che queste circostanze atmosferiche si traducano in brutale distruzione
di vite umane.
Permane tuttora un grosso disordine, cioè una sovrapposizione nelle reti di monitoraggio
dello Stato e delle Regioni, così come nei servizi cartografici che sono molte volte indipendenti tra
di loro, pure nella possibilità che oggi le moderne tecnologie ci consentano di effettuare con
trasparenza una interconnessione.
Tale situazione contribuisce alla totale mancanza di pianificazione degli interventi di difesa
del suolo e ad un caos della programmazione economico-finanziaria da parte delle Regioni. Di
tutte le opere di sistemazione idraulica realizzate fino agli inizi degli anni 70 pochissime hanno
ricevuto regolari interventi di manutenzione, l’incuria ed il tempo hanno ad oggi vanificato
l’esistenza di molte di esse.
Le ricadute di una ricerca, che come nel caso del rilievo satellitare è ormai abbastanza avanzata e consolidata, debbono invece interessare l’intera collettività; gli investimenti effettuati nel controllo del territorio e quindi nella previsione e prevenzione dei disastri naturali debbono provocare redditività se posti in relazione alla mancata spesa per il soccorso ed il ripristino di siti interessati dagli eventi disastrosi. Le cronache di questi giorni, come quelle degli anni scorsi, ci hanno indicato anche quanti miliardi si spendono normalmente in Italia per i soli interventi urgenti di risistemazione territoriale. Prevenzione, quindi, conviene anche in termini economici. La prevenzione, come abbiamo visto, richiede investimenti, quindi spesa ed occupazione. E’ però una spesa che si può e si deve preventivare insieme alla pianificazione degli interventi. Bisogna affermare la necessità di una svolta seria e definitiva rispetto ad un atteggiamento del “tirare a campare” fino alla prossima frana; bisogna che lo Stato imponga da subito una seria direttiva per il monitoraggio del territorio.
Ormai non si possono più ritardare scelte politiche su questo fronte, lo stesso Parlamento ne
è consapevole, infatti nell’ambito della già citata indagine conoscitiva sulla difesa del suolo, la
Commissione competente, questa volta del Senato della Repubblica, sottolinea che si continua a
distogliere fondi e a mutare programmi per fronteggiare gli oneri derivanti dagli interventi urgenti e
che spesso si opera in una logica delle emergenze.
Allora l’appello che vuole scaturire da questo convegno è rivolto alla classe politica perché
affronti in maniera seria e definitiva il nodo delle competenze in materia di tutela e pianificazione
dell’uso del territorio, anche se necessario nell’ambito delle riforme istituzionali, in modo da dare
certezza ad un intervento che veda la responsabilità e l’indirizzo politico in testa allo Stato, come
per altro avviene in altre nazioni europee, quali la Francia che nell’ambito dell’Unione Europea
rappresenta, a nostro avviso, il migliore modello di Protezione Civile, ma anche di organizzazione
statale in materia di politiche territoriali.
Questo modello naturalmente deve vedere l’ampio coinvolgimento delle Province in primo
luogo e dei Consigli Regionali, deve salvaguardare la potestà programmatoria delle Regioni in
riferimento alla spesa ed agli interventi, deve spingere il federalismo al pieno coinvolgimento delle
autonomie locali con in primo luogo i Comuni per la realizzazione degli interventi e per il controllo
del territorio in funzione previsionale e di prevenzione del danno.
Un appello è rivolto anche alla società civile e alle organizzazioni che la rappresentano.
Aderiscono all’invito, e spero che intervengano, amici del volontariato, ambientalisti ed anche i
Sindacati hanno assicurato la loro presenza. Non serve a molto dire: “Io l’avevo detto”, non serve
fare i primi della classe, questo significherebbe speculare su lutti e tragedie dei nostri fratelli più
sfortunati colpiti per quell’occasione. Serve, invece, essere continuamente propositivi, mettere a
disposizione le proprie competenze e vigilare come società civile sul fatto che si dia un seguito agli
impegni assunti a vari livelli istituzionali, per migliorare organicamente l’organizzazione e la
protezione territoriale in Italia, altrimenti iniziative come questa che stiamo svolgendo rimarranno
fini a se stesse, improduttive ed allora sarà una sconfitta per tutti noi, non solo per gli sfortunati di
turno che saranno coinvolti nel prossimo dissesto idrogeologico.