La lettera del professor Pietro Carmina ai suoi alunni
Una tragedia per scoprire il sublime
Ravanusa
di Valentino Losito
Ravanusa: il nome di questo paese sconosciuto e lontano, risuonerà ancora per qualche giorno nelle nostre vite. Poi scivolerà nei bassifondi della memoria, fino a scomparire, travolto dalla febbre del fare e dagli assilli di questo tempo inquieto.
Ripensando alla storia del professor Pietro Carmina e alla lettera ai suoi alunni, ho ripensato ad alcuni versi di Eugenio Montale, secondo cui “la storia non è la devastante ruspa che si dice/lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive”.
A pensarci bene è stato così anche per lui: è come se quella lettera e la testimonianza del suo autore, fossero spuntate dalle macerie rimosse dalla ruspa, che hanno portato in superficie un'esistenza spesa per i giovani.
Da una cripta di dolore, nel cuore silenzioso della vecchia Sicilia, è sbucata questa vita, venuta alla luce proprio quando è esploso il lacerante buio della devastazione e della morte.
Lontano dall’assordante rumore della modernità, nelle periferie della cronaca, esistono uomini e donne che vivono e operano ogni giorno con dignità e slancio, con rigore ed entusiasmo il proprio dovere. Autentici ed invisibili, almeno fino a quando una nuova tragedia dell’Italia “sgarrupata” non li porta sotto le luci dell’effimera ribalta televisiva e della nostra fragile “pietà”.
Eppure esistono, operano sopravvivono, nelle mille Ravanusa dell’Italia migliore.