Lo Hobbit- La Battaglia delle Cinque Armate
Del viaggio, meglio il ritorno a casa
di Giada Gentili
Per recensire “Lo Hobbit- La battaglia delle Cinque Armate” avevo pensato di dividere l’articolo in due parti: una per chi ha letto il libro e un’altra per chi non ne ha neanche mai sfogliato una pagina. Poi però ho pensato che un film non si può giudicare sulla base della bellezza del libro (neanche nel caso del maestro J.R.R. Tolkien, no) quindi ho cercato di tirarmene fuori partendo però da due presupposti sul quale noi tolkeniani siamo tutti d’accordo:
1- Sminuzzare la storia in tre film è stato come allungare il caffè con l'acqua, si perde tutto il gusto
2- “Lo Hobbit” non ha nulla a che vedere con la rivoluzione estetica cinematografica de “Il signore degli anelli”, anche perché pure il sublime e etereo Legolas appare più brutto nella nuova opera di Peter Jackson.
Asserito questo possiamo discorrere della forma del pacchetto: Jackson e le sue potenti telecamere da 48 fotogrammi al secondo ci sanno fare, mica no. E’ Smaug, il vecchio drago delle miniere di Moria, ad aprire le danze de “Lo Hobbit- La battaglia delle Cinque Armate”, lo spettatore si sentirà immediatamente travolto dalle fiamme e dai colpi di coda della bestia che attacca la città . Riprese magistrali, potenti, un vero tripudio di cinema fantasy. Segue poi la parte più debole del film: la follia in cui viene trascinato il nano Thorin reso pazzo dall’amore per l’oro delle miniere. L’inesorabile discesa causata dall'Unico Anello che portò Gollum, poi Bilbo, poi Frodo verso l’abisso ne “Il signore degli anelli” raccontata con toni angoscianti, drammatici, un fardello da sopportare pesino per lo spettatore, in questo caso è ridotta ad un giochino d’espressioni. Thorin è prima Brontolo, poi Cucciolo: si lascia sedurre dal potere e rinsavisce con la velocità con cui decidiamo di metterci a dieta finiti i vari cenoni natalizi.
Si passa alla classica guerra epica condita da momenti di puro pathos: durante la Battaglia a Jackson si può rimproverare poco o niente, tranne forse il fatto di aver ripetuto a memoria il compito straordinariamente svolto ne “Le Due Torri” al Fosso di Helm. E’ nelle parte finale quando si torna a guardare “Un panorama familiare” che agli appassionati si potrà stringere il cuore, quando riguarderanno, ancora una volta, la morbida silhouette della Contea, il cielo azzurro, il buco in cui vive “Lo Hobbit” e quando, nell'ultima scena, il tocco da maestro farà arrivare il groppo in gola ai più nostalgici. Peccato per questo viaggio sprecato e peccato che più di ogni altro viaggio cinematografico il momento più bello, in questo caso, sia stato quello del ritorno a casa.