The Hateful Eight
La riunione di condominio dell’umanitÃ
con Tarantino in splendida forma
di Giada Gentili
Tarantino è tornato
C’è una qualità che ho sempre apprezzato nei film di Quentin Tarantino ed è la chiara e limpida percezione che lui stesso, ogni mattina dirigendosi sul set, già si divertiva. È evidente nella scena dell’overdose di Mia in Pulp Fiction, nel momento della tortura de Le Iene ma anche nella catarsi teatrale di Bastardi senza Gloria, nell’osservare queste epiche sequenze lo vedevo con la telecamera sotto le mani che rideva onestamente divertito. In Django questa componente è mancata - anche se non l’ho mai ritenuto da cestinare come gran parte del pubblico - ed è tornata a farsi sentire con The Hateful Eight.
Immagina il brain-storming
Ci sono otto pazzi criminali rinchiusi in un emporio alla fine della guerra di secessione americana: ovvio che moriranno tutti entro la fine del film (non si può considerare spoiler se conoscete Tarantino) ma come facciamo a far sì che accada? Nello sviluppo della storia torna proprio il dialogista geniale dai botta e risposta serrati, anche se ridondanti e auto-citazionisti, la maestrìa degli attori - inspiegabile le non candidatura agli Oscar di Samuel L. Jackson e Tim Roth quantomeno - con scenografia e fotografia rese ancora più accattivanti dall’effetto John Ford dei 70mm di girato.
L’ottavo capolavoro
Otto personaggi che sono un po’ le sfaccettature dello stesso Tarantino, il “negro†in cerca di vendetta (Marquis Warren), il cattivone dal cuore tenero (John Ruth), la donna a capo di una mandria di uomini (Daisy Domergue), l’imbecille intelligente (Chris Mannix), il gigante timido (Bob), il geniale filosofo pulp (Oswaldo Mobray), il brutto anatroccolo della situazione che si sente cigno (Joe Gage) e il consapevole saggio (Sanford Smithers). Una riunione di condominio dell’umanità , in cui i protagonisti sotto pressione tirano fuori il meglio e il peggio della persona e che finiscono per banchettare l’uno con i resti degli altri, senza tralasciare una dose di sano romanticismo tarantiniano, rappresentato in questo caso dalla splendida lettera di Lincoln. Un gioiello formale, comico, dark e splatter arricchito dalle quasi invisibili musiche di Ennio Morricone, resta un mistero la sceneggiatura originale per niente considerata agli Oscar. Tarantino la farà pagare all’Academy con una prossima opera in cui profetizzerà la scomparsa di Hollywood (almeno spero), per me comunque può far tutto, purché continui a divertirsi così.